| CAPITOLO 12
31 gannaio, h 15.30 Ufficio di House
House raggiunse il ragazzino nel suo ufficio, e gli fece gesto di alzarsi. Lui ubbidì, tenendo con un braccio il libro, l’altro ciondolante al lato del corpo. Si avvicinò e lo afferrò per il braccio paralizzato. Elliot sembrò trasalire, ma lo lasciò fare senza protestare. House gli sollevò il braccio e poi lo lasciò cadere; fece così alcune volte. “Cosa sta facendo, dottore?” chiese ad un certo punto Elliot. “Ti sto distraendo in modo che tu non mi chieda dove sono corsi Chase e gli altri.” gli rispose, sedendosi e trovandosi così alla stessa altezza del ragazzino. “Perché dovrei risponderti che tua madre ha avuto un arresto respiratorio, e questa è una bruttissima cosa. Tu ti metteresti a piangere, e io mi irriterei e ti porterei dalla crudele zia Cuddy per farti spedire in qualche orfanotrofio.” Elliot lo guardava serio. “So che mia mamma sta molto male, dottor House. E so che non morirà. I suoi medici la faranno respirare, adesso è già fuori pericolo.” In quel momento Foreman si affacciò alla porta “Arresto respiratorio, i polmoni sono paralizzati. L’abbiamo intubata ma…” si fermò, incontrando lo sguardo del ragazzino. “…ma non potrà durare così a lungo. Si, lo so. Dillo pure davanti ad Elliot, tanto è una roccia.” concluse House, tirando una pacca sulla spalla del ragazzo, talmente forte che gli fece perdere l’equilibrio. “Stai attento, è un bambino!” lo ammonì Foreman. “Siete una massa di ingenui…” disse House tra sé e sé. “Io vado a preparare la macchina per la risonanza. Tra poco ti vengo a prendere, Elliot.” Il ragazzino annuì rivolto al neurologo. “Nel frattempo…cercate di nascondervi. Se vi vede Cuddy dovremo raccontarle qualcosa.” Foreman se ne andò e House si alzò dalla sedia. “Vieni” disse al ragazzo, prendendo il giaccone di Foreman e gettandoglielo addosso. “metti questo.” Uscirono sul balconcino, chiudendosi la porta alle spalle. Aveva ricominciato a nevicare e il freddo era pungente: difficilmente qualcuno si sarebbe avventurato là fuori. “Ora ti aspetteresti che io ti chiedessi come mai sapevi che tua mamma era ormai fuori pericolo…” disse House al ragazzo “…ma non te lo chiedo, perché ce l’ho già una risposta. Tu sei cresciuto in mezzo alla strada, quindi per sopravvivere probabilmente avrai dovuto rubare, oppure chiedere l’elemosina o roba simile. Sei molto sveglio, e soprattutto furbo. Hai anche una capacità che ho anch’io; quella di osservare molto bene la gente e capire quindi tante cose. Poi sei colto. Non sei un barbone qualunque insomma…sei un barbone intelligente, Elliot.” “E’ la seconda volta che mi chiama per nome, dottore. Lei non ricorda mai i nomi dei pazienti.” replicò Elliot “Questo significa o che si è particolarmente affezionato a me, oppure che io la spavento. Non credo che si tratti della prima motivazione.” “Tu non mi spaventi, piccolo mostro presuntuoso. Il tuo nome me lo ricordo perché è quello del bambino che si era portato a casa ET, e tu me lo ricordi. Non il bambino, l’alieno.” disse House, fingendosi offeso. “Forse non la spavento io, ma la spaventa il modo in cui i suoi colleghi mi guardano. Soprattutto il dottor Chase.” insistette il ragazzo. “Ha paura che io possa manipolarli, vede in me una minaccia.” Le ultime parole di Elliot erano vere. House temeva che quel ragazzino, se avesse voluto, avrebbe potuto raggirare Chase e Cameron come voleva. Foreman forse no, ma non ne era così certo. “Anche se fosse vero, tu non sei una minaccia per me. Ti tengo d’occhio ragazzino, ogni tua mossa sarà sotto il mio controllo.” gli disse House, ostile. “Io voglio solo vedere mia madre, dottor House.” rispose Elliot quietamente, guardandolo negli occhi. L’aria innocente che aveva il ragazzo in questo momento suggerì ad House il fatto che forse non era così pericoloso come sembrava. Pochi istanti dopo si rese però conto che quell’immagine di bambino indifeso era quella che vedevano i suoi medici, quella che faceva abbassare la guardia. Lui non voleva farlo. C’era la possibilità che quel ragazzino fosse innocuo, solo molto suggestionante. Ma il suo istinto gli diceva che non era solo quello. “Hai freddo?” gli chiese, burbero. “No dottore.” “Bene. Resta qui finché non viene Foreman a prenderti, io ho delle cose da fare.” Detto questo rientrò nel suo ufficio, chiudendosi la porta alle spalle e lasciando Elliot sotto la neve.
31 gennaio, h 15.40 Princeton Plaisboro Teaching Hospital
Foreman stava camminando nel lungo corridoio che portava alle sale coi macchinari. Sentì dei passi veloci e decisi provenire da dietro di lui e si voltò quando lo raggiunsero. “Ciao Foreman.” “Ciao Cuddy.” Il neurologo non poté fare a meno di sorridere, ma lei tentò di ignorare la sua espressione. “Avevi bisogno di qualcosa…prima, quando sei passato…” la Cuddy era molto imbarazzata, ma cercava di nasconderlo usando il suo solito tono di voce autoritario. Foreman fu preso alla sprovvista; aveva dimenticato che Cuddy probabilmente aveva visto Elliot. Decise comunque di mentire, ormai riteneva anche lui indispensabile fare quegli esami al ragazzo, e la responsabilità di quello che stava accadendo sarebbe comunque ricaduta su House. “No, niente di importante…” disse. “C’era un bambino con te.” replicò lei. “Si…l’avevo trovato lì nei paraggi, si era perso. Visto che non c’era nessuna infermiera disponibile avevo pensato che potesse essere qualcuno che tu conoscevi.” fu la prima cosa che gli venne in mente ed era una pessima scusa, ma la Cuddy era troppo presa da altri pensieri per far caso al fatto che lui stava mentendo spudoratamente. “Ah…no, non l’ho mai visto.” rispose lei, confusa. “Si, ma non ti preoccupare. L’ho affidato a un’infermiera, sicuramente avranno trovato i suoi genitori.” disse lui, poco convinto. “Bene.” asserì lei, sorridendo mentre si tormentava le mani. Anche Foreman sorrise, ma entrambi restarono immobili, uno di fronte all’altra. “Comunque, per quello che hai visto...” disse ad un tratto Cuddy, prendendo coraggio, ma senza riuscire a terminare la frase. “Non ti preoccupare, è colpa mia, dovevo bussare.” “Si, quello sicuramente.” rispose lei, con tono severo. “Però…” la sua voce tornò ad essere esitante “..vorrei che non ne parlassi con nessuno, per favore.” Il silenzio di Foreman fece capire alla Cuddy che era troppo tardi… “E’ che House lo sapeva già.” disse Foreman, cercando di scaricare la colpa. La Cuddy alzò gli occhi al cielo. “Va bene, almeno fate in modo che non lo sappia nessuno al di fuori della vostra equipe, chiaro?” la fermezza della sua domanda fece pentire Foreman di averle mentito riguardo al bambino. Se gli avesse scoperti sarebbero finiti nei guai. “Certo, sono affari vostri, ci mancherebbe.” rispose al suo capo. Cuddy sembrò tranquillizzarsi. “A dopo.” mormorò e, fatto dietro front, tornò sui suoi passi.
31 gennaio, h 15.45 Ufficio di House
Foreman preparò la macchina e andò a prendere Elliot. House l’aveva lasciato sul balcone, sotto la neve, mentre lui si era rimesso a studiare attentamente la lavagna. “Ma sei impazzito?!” gli disse, aprendo la porta del balcone per far rientrare il ragazzo. “Non si preoccupi dottor Foreman, gli ho detto io che poteva lasciarmi qui. Grazie al suo giubbotto non ho sofferto il freddo.” Elliot passò il giaccone a Foreman, sorridendogli. “Visto? Non farei mai del male a qualcuno senza il suo consenso. Lui me l’ha dato il consenso…” disse House, compiaciuto. Foreman preferì evitare di dire qualunque altra cosa e, fatto cenno al ragazzo di seguirlo, andò a fargli la risonanza.
Dopo pochi minuti Wilson entrò nel suo ufficio. “House.” toccò una spalla all’amico. Questi sobbalzò, preso alla sprovvista. “Ti eri addormentato?!” chiese Wilson. “No...” rispose House, assonnato. “E’ che faccio fatica a concentrarmi.” “Come mai?” Wilson prese una sedia e si mise tra lui e la lavagna. “Vuoi anche farmi sdraiare su un lettino?” chiese House ironico, alzandosi per preparare il caffè. Wilson lo seguì con lo sguardo. “Foreman ha visto me e Lisa che ci baciavamo.” “Si lo so. Siete due idioti.” rispose House. “Hai solo questo da dirmi?” “No, ma al momento è l’unico pensiero che mi passa per la testa.” “Grazie, se non avessi un amico come te, non so come farei.” Wilson scosse la testa, prendendo la tazza di caffè che House gli stava passando. Quest’ultimo tornò a sedersi di fronte a lui. “Quella non è la tua tazza.” disse Wilson, notando l’oggetto a cui House stava portando le labbra. “La mia tazza è scomparsa. Aspetto 24 ore prima di dare l’allarme ufficiale. Cameron comunque si sta già dando da fare nelle ricerche. Con quello che le ho promesso...” rispose il diagnosta, facendo un sorso di caffè. “Stai bevendo dalla tazza di Cameron.” osservò Wilson. “Già, non so perché ma l’idea di appoggiare le labbra dove hanno appena fatto lo stesso Foreman o Chase mi fa un po’ senso. A te no, a quanto vedo.” Wilson guardò la sua tazza poi fece spallucce. “E’ solo una tazza.” disse, incominciando a bere. Finirono in silenzio il loro caffè. “L’idea di appoggiare le labbra dove l’ha fatto Cameron vedo che però non ti dispiace.” lo provocò Wilson. “E’ successo ancora.” disse House, pensieroso. “Cosa?” chiese l’oncologo. “Ci siamo baciati. Anzi precisiamo, come ha fatto lei: io l’ho baciata.” disse House, appoggiando la tazza sul tavolo. “Qui?” chiese incredulo Wilson. “Si, ma non era in programma. Mi ha preso alla sprovvista.” vedendo che Wilson non diceva niente andò avanti “Le avevo detto qualcosa di cattivo, per farla arrabbiare. Lei invece di inc@zz@rsi o andarsene si è avvicinata e mi ha abbracciato. E’ una ruffiana…non me l’aspettavo, me la sono trovata addosso…” House sembrava confuso. Wilson sorrise. “Brava Cameron.” disse tra sé e sé. “Cos’hai detto?” gli chiese House, sporgendosi verso di lui. “Niente, lascia stare. Bhè, cos’hai intenzione di fare?” chiese all’amico. “E’ strana…dici che dovrei licenziarla?” “Cosa?! Se ti limitassi ad invitarla ad uscire?” tentò Wilson. “No…Siamo già usciti insieme , è andata male. Poi probabilmente rifiuterebbe.” “Stai scherzando?! Non era pazza di te?” “Lo è. Però…è cambiato qualcosa: si comporta in modo incoerente.” House sembrò riflettere qualche secondo; Wilson preferì non interromperlo. Passarono alcuni minuti, in cui l’oncologo rispettò il silenzio dell’amico. “House? Posso chiederti una cosa?” gli chiese poi. “Basta che non si tratti di un altro prestito!” replicò House. “Com’è andata tra te e Lisa? Cioè…com’è che siete finiti a letto assieme?” chiese Wilson ignorando la sua battuta. “Sei masochista.” asserì il diagnosta. “Si, ma rispondi per favore.” “Qualche sera dopo che Stacy se n’è andata, sono andato a casa della Cuddy. Sapevo che avevano parlato, e volevo sapere cosa si erano dette. Lei non voleva neanche farmi entrare…” Wilson gli fece cenno di andare avanti. “Insomma…una parola tira l’altra. Un bicchiere di vino tira uno di rum…” “Eravate ubriachi?” chiese Wilson, perplesso. “Già, la prima volta si. Questo ti solleva?” gli domandò House, di rimando. “A dirti la verità si… Ma non è per questo che ti ho chiesto com’era andata.” “E perché allora?” gli chiese House. “Perché magari potresti andare a trovare Cameron una sera di questa. Con una scusa qualunque…so che non ti sarebbe difficile trovarla.” consigliò Wilson all’amico. “Mi stai spingendo spudoratamente tra le sue braccia! Ma da che parte stai?” “Non è una guerra House. Se lo fosse, comunque, starei dalla tua parte.” gli disse Wilson, alzandosi e posandogli una mano sulla spalla. “Buttati. Se poi ti fai male, ci sono io.” continuò. “O la Cuddy…” ribatté House, malizioso. “So che non lo faresti.” disse l’oncologo, con sicurezza. “Io non ne sarei tanto sicuro…” insistette House. “Io si.” Wilson posò la tazza accanto a quella di Cameron, e lasciò la stanza.
31 gennaio, h 16.00 Camera della signorina Pivet
La paziente era stata intubata, il suo torace si alzava e si abbassava, con ritmo regolare. Cameron era seduta accanto a lei, e osservava attentamente il monitor che indicava il suo battito cardiaco e la pressione. Chase era ai piedi del letto, e guardava le due donne. “Cameron” disse alla collega “Non credi che Elliot le assomigli davvero tanto.” La dottoressa posò lo sguardo sulla Pivet. “Si. Se qualcuno vedesse il ragazzino, lo collegherebbe facilmente a lei. Chase…scusa per prima, non volevo offenderti.” “Non ti preoccupare. Dal primo momento che hai visto me ed Elliot assieme, ti è venuta in mente la storia della mia infanzia. Hai fatto bene a dirmelo: è brutto quando so cosa sta passando nella testa delle persone, ma tutto viene taciuto e non se ne può parlare.” Cameron lo guardò perplessa: non aveva mai sentito parlare così il suo collega. “Ti trovo strano oggi. Quel ragazzino sembra ti abbia scioccato parecchio.” Cameron decise di non nascondergli quello che pensava. “Lo ha fatto.” rispose Chase, assorto. “House si è accorto che la sua tazza è sparita?” chiese improvvisamente, cambiando discorso. “Si. Ha ordinato anche a te di cercargliela?” gli chiese Cameron, divertita. “No. Però so che fine ha fatto.” Chase non poté fare a meno di sorridere. Cameron gli rivolse uno sguardo interrogativo. “Ieri sera mi ha fatto veramente inc@zz@re…ho preso la sua tazza e l’ho lanciato contro il muro. E’ andata in mille pezzi.” confessò Chase. Cameron continuò a guardarlo senza parlare, ora sbalordita. “E’ solo una stupida tazza. Io ho perso tante cose davanti a lui: la mia dignità, il mio onore…cosa vuoi che sia, in confronto, quell’inutile oggetto?” le domandò lui. “Capisco cosa intendi dire.” rispose lei, soprappensiero. “Credo però di aver capito che non è così: a te sembra di star sacrificando la tua dignità, ma in realtà è solo quello che lui ti fa credere. In ogni sua battuta tagliente, c’è un lato nascosto, difficile da vedere…” tentò di spiegare Cameron “Ad esempio ti prende spesso in giro per le ipotesi fantasiose che tiri fuori mentre cerchiamo di fare una diagnosi…però non le scarta mai senza ragionarci su. Insomma: ti considera, ti stima…è che non è in grado di ammetterlo neanche a se stesso.” “Molto fantasiosa come teoria…” disse Chase, mettendosi dietro di lei e appoggiandole entrambe le mani sulle spalle. “Per lo stesso motivo, ad esempio, potrebbe allontanare una bella donna, ma solo dopo averle dedicato un sacco di battutine pungenti. Così le dimostrerebbe che le piace, ma che non lo vuole ammettere a se stesso..” Chase abbracciò la collega da dietro. Cameron percepì una certa tenerezza in quel gesto. “Allison, sei innamorata di lui, lo sei sempre stata.” le disse, senza smettere di tenerla stretta. Lei sorrise, appoggiando le mani sulle sue. “Non sono sicura sia questo Chase, ma ho bisogno di stargli vicino per capire.” si voltò per guardarlo negli occhi. “Tu mi piaci molto, davvero. Ma è un’altra cosa….” “Lo so, dottoressa Cameron.” le rispose, sciogliendo l’abbraccio a sedendosi di fronte a lei, sul letto della Pivet. “Mi va bene così. Mi sono tolto lo sfizio di venire a letto con te e ora…mi accontento del nostro rapporto professionale.” “E della mia amicizia.” aggiunse lei, sorridendogli. “Certo, e della tua amicizia.” rispose al suo sorriso. I loro cercapersone suonarono, per la seconda volta in pochi minuti. “Torniamo alla base.” disse Chase, rivolto alla collega. Entrambi lasciarono rapidamente la stanza.
31 gennaio, h 16.15 Ufficio di House “Foreman ci porta buone nuove!” gli accolse House, mostrando loro il risultato della risonanza magnetica. “Guardate un po’ qui.” Indicò una macchia sulla lastra. “Chase, Cameron, salutate il vostro fratellone! Foreman passerà molti dei suoi prossimi giorni al piano di sotto!”
CAPITOLO 13
31 gennaio, h 16.20 Ufficio di House
“Stessa macchia, stesso posto!” esclamò House, vittorioso. “Ho vinto la scommessa!” Foreman scosse la testa rassegnato, osservando la lastra. “L’elenco dei miei turni della settimana è sulla scrivania, prego.” House indicò al neurologo una pila di scartoffie. “Va bene House, farò i tuoi turni. Smettila di gongolare come una bambino però, sei ridicolo.” Foreman sembrava molto seccato. “E’ il sapore della vittoria, ha un effetto…inebriante!” insistette House. “Come fai a sentire il sapore della vittoria, quando hai una paziente che sta morendo senza che tu sia riuscito neanche a capire di che genere di patologia si tratta?” gli chiese Chase. “Guastafeste!” esclamò House, voltandosi verso quest’ultimo. “Vai a sfogare le tue frustrazioni da qualche altra parte! A proposito…” lo avvicinò di qualche passo “…tu sai qualcosa della mia tazza?” “House, per favore…” Foreman era esasperato. “No, non ho visto la tua tazza.” mentì Chase. “Ora cosa facciamo?” chiese poi, accennando alla lastra del ragazzo. House strinse gli occhi e sembrò studiarlo per qualche istante, poi si voltò anche lui verso la lampada. “Rivoltatelo come un calzino…” disse alla sua equipe. I tre medici si guardarono perplessi, senza accennare a muoversi. “Cosa?” chiese titubante Cameron. “Prendete quel ragazzino e fategli tutti gli esami possibili, il più in fretta possibile. Dobbiamo capire perché in lui quella macchia ha provocato solo la paralisi ad un arto, mentre sta uccidendo sua madre.” spiegò House, guardandoli serio. “Quindi adesso la macchia, da qualcosa che può avere a che fare col disturbo è diventata quella che ha provocato il disturbo?! Ma ti sembra possibile che una lesione all’area di Broca possa aver provocato tutto quello?” Foreman era spazientito dall’ostinazione del suo capo. “No, ma l’ipotesi di Cameron sembra sempre più possibile. Può essere qualcosa che si è nascosto dietro a quella cicatrizzazione e che ad un certo punto ha incominciato il giro turistico del cervello. Nel bambino però ha preso casa nel primo luogo confortevole che ha trovato; nella Pivet invece sta facendo l’interrail…e lascia qualcosa di sé ovunque passa…” disse House, riflettendo ad alta voce. “Oppure si prende un souvenir…ovunque passa.” disse Cameron, anche lei assorta. Chase e Foreman si guardarono dubbiosi. “Questa metafora fa schifo, puoi spiegarti meglio?” chiese Wilson, apparendo all’improvviso dietro i medici. House non rispose, sembrava assente: era perso nei suoi pensieri. “Pensavamo ad un parassita, che si è diffuso nel cervello e sta distruggendo il sistema nervoso. In questo caso il cervelletto della paziente…e ora sembra essere arrivato al tronco encefalico.” spiegò Cameron all’oncologo. “E’ in dirittura d’arrivo…” commentò Wilson. “Già. Potrebbe agire diffondendo qualcosa nel cervello oppure…avevo pensato che magari potrebbe sottrarre qualcosa…” tentò Cameron, guardando il suo capo. “Non capisco, Allison, cosa potrebbe sottrarre per provocare sintomi come quelli che stiamo vedendo.” chiese l’oncologo a Cameron. “Ehi ehi ehi! Non permettergli di chiamarti per nome, ok?” sboccò House, rivolto alla dottoressa. Questa posò confusamente lo sguardo prima sul suo capo, poi su Wilson e ancora su House. “Perché?” chiese titubante. “Chiedilo a Lisa.” disse Foreman, ridendo. Cameron sembrò non capire e, ignorandoli, cercò di andare avanti a spiegare la sua ipotesi: “Credo che se fosse un parassita potrebbe…” “Basta così.” la interruppe House. “Ho capito cosa intendi e può essere un’idea interessante. Brava.” Lei abbassò lo sguardo, in imbarazzo. Non ricordava di aver mai ricevuto un complimento così diretto dal suo capo, per il suo lavoro. “Adesso però fate tutti gli esami necessari al marmocchio, e coi dati in mano organizzeremo un piano d’azione.” “Va bene generale.” disse Chase, prendendolo in giro. House lo guardò torvo. “Tu stai lontano dal ragazzino, ti occuperai di tenere in vita la Pivet. Dov’è?” chiese poi House, guardandosi in giro alla ricerca di Elliot. “L’ho lasciato in bagno.” disse Foreman. “L’hai lasciato solo?” chiese House, sconcertato. “Dai House, è un ragazzino, cosa vuoi che faccia?” “Sei un idiota. Andate a prenderlo e fategli subito un prelievo, tanto per cominciare.” I tre medici uscirono dalla stanza, ognuno col suo compito. Wilson guardava House, sorridendo. “Cosa vuoi?” gli chiese questi. “Le hai detto che è brava. Tu non dici mai a qualcuno della tua squadra che è bravo. E’ una questione di principio: solo insulti, niente complimenti. Hai paura che si abituino troppo bene.” “E’ vero. Ti ha disorientato?” chiese House all’amico, incuriosito. “Si. Incominci a perdere il controllo.” rispose Wilson, dando una pacca sulla spalla del diagnosta. “Ti sbagli. Lei sta giocando a disorientarmi…voglio fare lo stesso.” asserì House, lo sguardo perso verso la porta da dove era appena uscita Cameron. “Quando la finirai di fare il bambino e prenderai di petto i tuoi sentimenti?” gli chiese Wilson, esasperato dal suo comportamento. “Ma smettila di fare la femminuccia!” lo insultò House, con finto disprezzo. Wilson scosse la testa sconsolato, facendo per andarsene. In quel momento si sentirono dei passi veloci avvicinarsi all’ufficio. Entrambi i medici alzarono lo sguardo verso la porta. “Elliot.” disse Foreman, ansimando per la corsa. “Non lo troviamo.”
31 gennaio, h 16.50 Princeton Plaisboro Teaching Hospital
“Bisogna avvisare la Cuddy.” era la terza volta che Foreman tentava di convincere il suo capo ad avvisare Lisa della scomparsa del ragazzo. “Se tu non l’avessi lasciato solo, a quest’ora avremmo già i risultati degli esami e staremmo curando sua madre!” Chase appariva molto ansioso, ed aggredì Foreman. “E se tu non fossi nato in Australia non avresti un accento così fastidioso.” si inserì House, rivolto a Chase. “Ma tu sei nato lì e la tua voce è terribilmente irritante. Smettila di fare la mamma isterica e continua a cercare!” “Abbiamo guardato ovunque. Bisogna avvisare la Cuddy, ci farà guardare le registrazioni e…” ritentò Foreman. “No!” gli tolsero la parola House e Chase assieme. “Se lo dici alla Cuddy chiamerà la polizia e Elliot finirà in un istituto.” disse Chase, a bassa voce. “Se lo dici alla Cuddy chiamerà la polizia e non potremo più mettere sotto sopra quel ragazzo per vedere cos’ha!” neanche la motivazione di House convinse il neurologo. In quel momento arrivò Cameron, con passo svelto. “Ha tentato di avvicinarsi a sua madre?” le chiese House. “No. Io non sto più a fare la guardia ai poliziotti che fanno la guardia alla Pivet! Manda qualcun’altro.” la dottoressa sembrava molto nervosa. “Sicura che non l’hai visto?” insistette House, insospettito dalla sua irrequietezza. “No.” ribadì lei, guardandolo negli occhi. “E io lì non ci torno.” “Perché?” chiese Foreman spontaneamente. “Perché sono stufa…” indicò confusamente la direzione da cui era venuta. “I poliziotti stanno esagerando con gli apprezzamenti?” le chiese House. “Decisamente.” si limitò a rispondere Cameron, tentando di trattenere lacrime di rabbia. “Scusa, non ci avevo pensato. Ora ci va Chase, se vanno pazzi per le more, un biondino così lo lasceranno in pace.” disse House, mettendole una mano sulla spalla, comprensivo. Cameron lo fissò qualche secondo, disorientata dal suo insolito comportamento, almeno tanto quanto gli altri due medici. “Ehi, io non vado dalla Pivet. Ci sono già i poliziotti. Io continuo a cercare Elliot.” protestò Chase. “Siamo in quattro…” disse Foreman. “Cinque, c’è anche Wilson.” lo interruppe House. “…cinque.” proseguì il neurologo “In cinque a cercare un ragazzino in questo immenso ospedale senza poter chiedere se qualcuno l’ha visto in giro, perché c’è il rischio che si capisca che lo stiamo cercando? House, ti rendi conto che basta vederti girare per i corridoi per allarmare la Cuddy? Se lo scopre da sola non ci sarà modo di ragionarci, se invece glielo diciamo noi… Dobbiamo dirlo alla Cuddy!” “Dovete dirmi cosa?” Lisa comparve accanto ai medici, prendendoli di sorpresa. Tutti e quattro trasalirono. “E’ incinta!” esclamò House, prendendo Cameron per un braccio e spingendola di fronte alla Cuddy. “Non sappiamo chi è il padre…ne stavamo discutendo. Foreman sostiene che potresti esser tu ma…gli stavo appunto assicurando che sei una donna.” Il neurologo guardò House, sconvolto. “Cosa state combinando?” disse la Cuddy, ignorando il diagnosta. “Un paio di infermiere mi hanno avvisato che c’è il dottor House che gira a piede libero per l’ospedale insieme alla sua equipe…non so perché ma quando ti muovi troppo si crea un allarmismo generale qui in ospedale, che arriva sempre alle mie orecchie.” la Cuddy gli sorrise, ma tutt’altro che amichevole. Vedendo che House non rispondeva, si voltò verso gli altri tre medici. “Vi prometto che, se non mi dite entro dieci secondi cosa sta succedendo, vi licenzio in tronco tutti e tre e procuro ad House un’equipe nuova di zecca.” disse, mantenendo quel sorrisino minaccioso. “Ricordi quel ragazzino…?” esordì Foreman. “Ah-ha” lo incoraggiò lei. “E’ il figlio della Pivet.” La Cuddy fece scorrere lo sguardo su tutti e quattro i medici, ma nessuno sembrava voler dire di più. “State scherzando? Quella donna ha 26 anni.” tentò di ribattere lei. “Ed Elliot 12. E’ figlio suo, Cuddy. Basta guardarlo.” disse Chase, impaziente. “Bisogna trovarlo.” “Avvisiamo la polizia! Abbiamo due poliziotti in ospedale, possono esserci comodi, no?” ribatté la Cuddy, incominciando a camminare lungo il corridoio, verso la camera della Pivet. Chase l’afferrò bruscamente per un braccio. Lei si voltò e lo guardò incredula, ma lui non mollava la presa. “Non avvisare la polizia, Elliot vive in strada, lo porteranno in istituto.” le disse, guardandola negli occhi. House posò la mano su quella di Chase, scostandola dal braccio del loro capo. “Ti consiglio di trovare modi più gentili per attirare la sua attenzione, se vuoi che il tuo Elliot ti riconosca a fine giornana.” disse al medico. “Cuddy.” lei si voltò verso il diagnosta. “Ci serve Elliot per curare la Pivet. Non sappiamo cos’ha.” House sospirò e la guardò intensamente negli occhi. “Non riesco a capire che cos’ha. Non so più a cosa pensare. Mi serve quel ragazzino perché ha un disturbo simile alla madre. In lui c’è la chiave di questo mistero. Dammi qualche ora, poi ti consegno il ragazzo e puoi farci quel che vuoi.” La Cuddy lo fissò qualche secondo, ragionando sul da farsi. “Vi lascio la giornata. A mezzanotte avviso l’agente Dereck. Trovatelo e fategli gli esami che dovete fare, compreso quello del DNA. Se scopro che non è il figlio della Pivet il costo di tutti questi test verrà scalato dai vostri stipendi.” House annuì. “Ci dai una mano a trovarlo?” le chiese. La Cuddy alzò gli occhi al soffitto. “Mi faccio portare le videoregistrazioni di oggi, vi avviso appena sono nel mio ufficio.” “Grazie.” risposero in coro tutti e quattro. Lei li guardò perplessa, poi si voltò e tornò sui suoi passi.
31 gennaio, h 17.30 Ufficio di House
House rientrò nel suo ufficio, insieme a Wilson. Si sedette alla sua scrivania e chiamo Cameron sul cellulare. “Novità?” le chiese. “Niente. Abbiamo cercato ovunque. Chase e Foreman si danno il cambio davanti alla camera della Pivet. La Cuddy ha detto che le videoregistrazioni non le sono ancora arrivate. Wilson…l’ho perso di vista da un po’.” “E’ con me.” disse il diagnosta. “House, il ragazzino potrebbe essersi spaventato e potrebbe semplicemente essere scappato!” disse lei. “No. E’ escluso. E’ qui da qualche parte.” replicò lui. Notò il libro del ragazzino, abbandonato a terra, in sala equipe. Fece cenno a Wilson di andarglielo a prendere. Questi lo afferrò da terra e lo passò all’amico, che lo aprì. “Cosa facciamo?” chiese Cameron, impaziente. “Continuate a cercare. Dev’essersi nascosto da qualche parte, prima o poi uscirà allo scoperto. La paziente?” “E’ stabile.” rispose lei, sospirando. Poi riattaccò. House sfogliò distrattamente il libro. “Ma che roba è?” disse ad un certo punto, passando la mano su una pagina. Wilson si mise alle sue spalle, guardando incuriosito il libro. “Sembra…unto.” disse. “Che schifo. Chissà da quante mani poco lavate è passato quel libro.” “E’ strano però…vedi? I contorni della macchia sono ben definiti e le scritte sono scolorite…E’ come se ci avesse tenuto qualcosa di unto per un po’…” ipotizzò House, ragionando ad alta voce. “Si, magari un filetto di carne rubato da qualche piatto in mensa?! Cosa vuoi dire?” gli chiese Wilson. House lo fissò per qualche secondo, senza dire niente. “Siamo degli idioti.” affermò poi. “La placenta!” “La placenta cosa?” gli chiese l’oncologo, confuso. “La placenta è…tutto! Come abbiamo fatto a non tener conto di un particolare così…stravagante?! Come ho fatto a non pensarci?” House chiuse bruscamente il libro ed alzò la cornetta del telefono. “Chi chiami?” Wilson era sempre più disorientato. “La Cuddy. Tu chiama Foreman e digli di non muoversi dalla stanza della Pivet.” gli ordinò. Wilson telefonò al neurologo comunicandogli la direttiva di House. “Cosa vuoi?” rispose ostile la Cuddy, visualizzando il numero di House sul display. “Fatti portare le registrazioni del giorno precedente alla scomparsa della Pivet.” le disse il diagnosta. “Cosa?! Perché?” chiese lei. “Quel piccolo b@st@rdo è già stato qui, è già stato in questo ospedale! Il giorno in cui sua madre si è miracolosamente alzata dal letto ed è fuggita.” disse il diagnosta, concitatamente. “House, stai delirando…” replicò la Cuddy. “No. E’ la placenta il punto. Il giorno che la paziente si è ripresa, lui è stato qui e le ha portato la placenta, gliel’ha fatta mangiare.” “La placenta ha fatto scomparire il sintomo?!” chiesero contemporaneamente la Cuddy e Wilson, che seguiva sconcertato la telefonata. “Si. Non chiedetemi in che modo, ma è quello il fattore che ha modificato il sintomo.” House sembrava convinto della sua tesi. “Stai vaneggiando.” disse decisa la Cuddy, dall’altra parte del telefono. House sospirò, irritato, e passò la cornetta a Wilson. “Convincila a procurarsi quelle registrazioni, e guardatele assieme. Trovate quel ragazzo. Credi che sapresti riconoscerlo?” “Si, credo di si.” rispose l’oncologo, prendendo la cornetta dalle mani dell’amico. “Bene.” House prese il libro e lasciò la stanza.
31 gennaio, h 17.30 Princeton Plaisboro Teaching Hospital
Chase stava ripercorrendo, per l’ennesima volta in un’ora, la rampa di scale del Plaisboro. Voltato un angolo, si trovò davanti improvvisamente Elliot. Fece un salto indietro per lo spavento. “Elliot! Ma dov’eri finito?!” gli chiese, andandogli incontro. “Deve aiutarmi a raggiungere mia madre.” gli disse il ragazzino, guardandolo serio. “Certo. Prima però dobbiamo farti degli esami. La tua risonanza magnetica ci ha evidenziato una lesione nel cervello che ha anche tua mamma. Se capiamo quello che è successo al tuo braccio, probabilmente riusciremo a guarirla.” gli spiegò Chase, avvicinandosi fino a trovarsi davanti a lui. “Niente esami. I vostri esami non servono a niente.” obiettò Elliot, con aria cupa. “Ma cosa stai dicendo? Sei venuto qui per permetterci di aiutarla.” disse il medico, titubante. “No, io sono venuto qui per salvare mia mamma. Lei deve solo permettermi di avvicinarla. Deve far spostare quei poliziotti.” il tono di voce di Elliot era troppo autoritario, e contrastava la sua figura gracile di ragazzino. Qualcosa in lui incominciò ad spaventare Chase. “Ok. Ora raggiungiamo gli altri e troviamo un modo di fartela incontrare…” gli disse, posandogli una mano sulla spalla. Elliot indietreggiò di un passo, allontanando bruscamente la mano del dottore. “Non mi tocchi, dottor Chase, e non mi prenda in giro. Ora lei va nella stanza di mia madre, dice ai poliziotti che deve farle un esame urgente e la porta fuori di lì.” il tono della voce del ragazzino fece venire i brividi a Chase, che incominciò a sentirsi stranamente debole e disorientato. I suoi occhi non riuscivano a staccarsi da quelli di Elliot. “No…perché?” si rese conto di essere in stato confusionale e sentì che doveva allontanarsi il più presto possibile da lui, ma ci riusciva. “Ora, dottor Chase, tu vai nella camera della signorina Pivet, dici hai poliziotti che la porti a fare un esame e fai in modo di trovarti solo con lei.” ribadì il ragazzino. Lui annuì debolmente; ormai aveva perso il controllo di quello che stava accadendo. Improvvisamente, la porta che dava sulle scale si aprì e Cameron si trovò davanti Elliot e Chase, che si fissavano negli occhi a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro. “Chase! L’hai trovato?” disse, chiudendosi la porta alle spalle ed avvicinandosi alla coppia. Il medico sembrò come risvegliarsi: si guardò intorno confuso, posò lo sguardo su Cameron, poi su Elliot, e si rese conto di quello che il bambino stava facendo con lui. Lo prese con forza per un braccio. “Piccolo b@st@rdo.” disse tra i denti. Elliot però si dimenò violentemente e, prima che Cameron o il collega potessero reagire in nessun modo, tirò un pugno allo stomaco di Chase, con tutte le sue forze. Questi, preso alla sprovvista, mollò la presa e si piegò in due dal dolore. Elliot si voltò e sparì in pochi secondi sulla rampa di scale. “Chase, tutto bene?” chiese allarmata Cameron, correndo accanto al collega e aiutandolo a sedersi. “Si, quel figlio di putt@n@…” entrambi si voltarono nella direzione in cui Elliot era scappato, ma di lui non c’erano più tracce.
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