It's in the pills that bring you down...

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°vally°
view post Posted on 17/12/2006, 13:58




CAPITOLO 8

31 gennaio, h 8.40
Ufficio della Cuddy

“Devo dire una cosa a Wilson.” le rispose seria la Cuddy.
“A proposito di ieri notte?” tentò Cameron.
Lei annuì, persa nei suoi pensieri.
“Se vuoi parlarne…” sapeva che lei e la Cuddy non erano amiche, ma la vedeva talmente turbata che provò ad offrirle il suo aiuto.
La Cuddy la fissò qualche secondo, forse indecisa se accettare quella mano tesa oppure no.
“Scusa Cameron, forse è meglio che riproviamo il confronto tra un’oretta.” si limitò a dire, congedandola. “Scusami.” Queste seconde scuse non erano solo per l’interrogatorio, ma anche per il suo tenerla così a distanza.
Cameron lo capì. “Non ti preoccupare.” le rispose, alzandosi. “Anche io stamattina non sono tanto lucida. Prendiamoci il tempo per un altro caffè e poi ci riproviamo.” le sorrise, comprensiva, e uscì dall’ufficio.
La Cuddy rimase qualche secondo a riflettere, lo sguardo nel vuoto.
Avrebbe dovuto parlargliene prima.
Improvvisamente le vennero in mente le ultime parole di Cameron: “anch’io stamattina non sono tanto lucida.”
Sarà stato per la febbre?
No, sapeva che non si riferiva a questo.
Si ricordò la sera prima, quando aveva ordinato a lei e House di rimanere da Wilson. A riposarsi.
Aveva fatto bene a non parlarne con Cameron, in quel momento sarebbe stata la persona peggiore con cui avrebbe potuto confrontarsi.
Lentamente, prese tutti i fogli che aveva sparsi sulla scrivania e ne fece una pila ordinata.
Guardò l’orologio: sicuramente era già nel suo ufficio.
Si alzò e lasciò la stanza.

31 gennaio, h 8.40
Ufficio di Wilson

“House, devi dirmi qualcosa?” il tono di Wilson era cupo.
House si guardò attorno: l’ufficio di Wilson era ordinato, pulito. Quella perfezione gli diceva tanto sul suo amico.
“House! Rispondimi.” lo guardava con un’espressione grave negli occhi, intuendo già cosa lo aspettava.
“Wilson, non fare l’idiota. Hai capito cosa voglio dirti.” House finse di essere scocciato.
“Si, ma voglio sentirtelo dire.” lo provocò lui, ormai visibilmente arrabbiato.
House decise di stare al gioco, sperando che quella conversazione si concludesse il prima possibile.
“Sono stato a letto con Lisa Cuddy!” esclamò in modo plateale. “Tanti anni fa, un paio di volte. Niente di serio, quattro salti tra amici. Ciao.” sollevato della confessione, si alzò ancora, dirigendosi verso la porta.
“Sei un bastardo House, perché non me l’hai detto?!” Wilson gli bloccò la strada.
“Cosa sei, il mio diario segreto? Devo tenerti aggiornato su…”
“No.” lo interruppe Wilson. “Sai benissimo a cosa mi riferisco. Dovevi dirmelo l’altro giorno, quando ti ho raccontato quello che era successo tra noi!”
“Sei ridicolo.” gli disse House puntandogli il dito contro “Ora dimmi una cosa: se io te lo avessi raccontato, sarebbe cambiato qualcosa? Non saresti andata a letto con lei?”
Wilson sembrò sorpreso dalla domanda, ragionò qualche secondo.
“No, probabilmente non sarebbe cambiato niente.” disse titubante. “Ma…”
“Ma un corno!” gli tolse la parola House. “Non sarebbe cambiato nulla e basta. Questa tua scenata è solo il risultato di un’inutile lotta tra il tuo voler essere moralista e ciò che sei veramente!”
Wilson stava per ribattere, ma l’attenzione di entrambi fu attratta dalla porta che si apriva. La Cuddy entrò, spalancandola.
Appena vide la situazione capì cosa stava accadendo. Si pentì di non essere rimasta nel suo ufficio a parlare con Cameron.
“Raggio di sole!” House girò agilmente attorno a Wilson, prendendolo di sorpresa, e raggiunse la Cuddy.
Le mise una mano dietro la schiena e incominciò a spingerla verso l’amico. “Che bello averti qui!”
La Cuddy non si aspettava di trovarli insieme, non sapendo cosa fare si fece trascinare da lui di fronte a Wilson, che la guardava spaesato.
“Stavo proprio dicendo al nostro caro amico, che quello che c’è stato tra noi anni fa è stata solo una parentesi di poca importanza, ormai chiusa e dimenticata.” la incoraggiò House. “Bene! Ora vi lascio un po’ soli. Ci vediamo più tardi.” si avvicinò alla porta.
“Ero venuta per parlartene.” disse lei titubante, rivolta a Wilson.
“Cuddy, per favore!” House tornò verso di loro. “Perché dovete farne una questione di stato? E’ stato solo del sesso occasionale, senza capo né coda! La volete finire di complicarvi la vita? Andate a chiudervi in qualche armadio!”
“Ha ragione.” disse la Cuddy rivolta a Wilson. “Stacy se n’era appena andata, e io stavo passando un brutto momento. E’ stato solo un piangerci addosso.”
“Detto così…” si intromise House, ma incontrò lo sguardo di Wilson, e decise di lasciar perdere.
“Va bè…buona continuazione, io vado. Sono un medico: ho un caso. Fantastico, no?” si chiuse la porta alle spalle.
Le discussioni nell’ufficio di Wilson, stavano diventando troppo impegnative per lui.

31 gennaio, h 8.45
Ufficio di House

Entrò nel suo ufficio, Cameron stava riordinando delle carte.
“Segnati questo appunto e ricordamelo ogni giorno: stare lontano dall’ufficio di Wilson.” le disse entrando.
“Non sono la tua segretaria.” ribatté lei, senza smettere di studiare i fogli che aveva davanti.
House appoggiò il bastone alla parete e incrociò le braccia, fissandola.
Dopo qualche secondo, sentendosi osservata, alzò lo sguardo su di lui. “Cosa c’è?” gli chiese, cercando di ignorare la vampata che l’aveva presa nel momento in cui i loro occhi si erano incrociati.
“Niente.” rispose il diagnosta, avvicinandosi alla scrivania e appoggiandovi le mani.
Lei cercò di concentrarsi ancora sul suo lavoro. House incominciò a tamburellare con le dita sulla superficie del tavolo.
Cameron non poté fare a meno di guardare le sue mani. Le venne in mente quando l’avevano stretta la sera prima. Cercò di scacciare quel pensiero, di rimanere calma.
“Ti rendi conto che non riesci a starmi vicino senza perdere il controllo?” la istigò House.
Lei alzò ancora lo sguardo su di lui; rimase senza parole per la sua sfacciataggine.
“Buongiorno; era ora!” l’ingresso di Foreman fece sobbalzare entrambi. “Abbiamo delle novità sulla paziente.”
“Tu che ci fai qui?” gli chiese House “Non ti avevo detto di andare a cercare quel ragazzino?”
“Si, ma Chase ha insistito per andar lui, e allora…” alzò le spalle, in segno di discolpa.
“Quando è iniziata l’autogestione? Ora vi metterete anche a creare barricate con le barelle e a cantare inni comunisti?” disse House, rivolto ad entrambi.
Cameron si alzò, avvicinandosi a Foreman. “Raccontaci della Pivet.”
“Il sintomo si sta comportando in maniera diversa dall’altra volta.”
Bastò questo ad attirare l’attenzione di House. “Cioè?” lo incitò questi.
“Cioè il tremore persiste lungo tutto il lato destro, la paralisi non si è ancora presentata. In più, sembra che anche il lato sinistro del corpo incominci ad avere spasmi.” disse Foreman.
House si avviò verso la lavagna, gli altri due lo seguirono.
“Per adesso prendono la gamba. E’ curioso, perché mentre per il lato destro era partito tutto dall’arto superiore, qui sembra il contrario. In più i disordini motori implicati sono di diverse specie. Solo tremito, ormai, al lato destro; spasmi alla gamba sinistra.” continuò Foreman.
“Il mio neurologo riformista cosa dice?” gli chiese House.
“Dev’essere il cervelletto.” rispose lui.
“Un’infezione?” ipotizzò Cameron.
“Con un’infezione al cervelletto ce la giochiamo in pochi giorni. Non mi piace.” rispose House.
“Non ti piace perché non è una buona idea o non ti piace perché così la Pivet muore, e tu perdi?” chiese seccata Cameron.
“Non mi piace perché se la paziente muore, i poliziotti fanno casino con la Cuddy, che viene a cercare me. E io ti ho detto che voglio stare lontano da Wilson per un po’.” precisò House, rivolto a Cameron.
“Mi sono perso qualche passaggio…” disse Foreman confuso. “Che c’entra Wilson?”
“Lascia stare.” replicarono insieme House e Cameron.
“Comunque l’infezione al cervelletto non è così impensabile, anche se intralcia la mia vita privata.” disse House, riprendendo il filo del discorso. “Fatele una PET-TC e vediamo se c’è qualcosa di anomalo.”
Foreman annuì e andò a preparare la donna per gli esami.
Cameron aspettò che uscisse e si avvicinò ad House, così tanto che lui, preso di sorpresa, indietreggiò di un passo.
“Ho detto -fatele una PET-TC-, significa che, a meno che Foreman non racchiuda in sé la trinità, e non credo perché quello potrei essere solo io, devi andare anche tu.” l’apostrofò House.
“Mi pare che anche tu non riesca a mantenere poi tanto il controllo quando mi sei vicino.” disse lei, ignorando la sua ammonizione, “Visto ieri sera…”
“Sono un uomo.” si limitò a dire House.
Cameron si sforzò di non perdere il contatto coi suoi occhi, avvicinandosi a lui ancora di qualche centimetro. Questa volta House rimase immobile.
“E io sono una donna.” gli disse.
Lui non reagì in nessun modo.
Rimasero immobili così, a pochi centimetri l’uno dall’altra.
A Cameron incominciò a girare la testa, sentì che non avrebbe retto a lungo quello sguardo.
Infatti, dopo alcuni lunghissimi istanti, si voltò e fece per andarsene.
“Hai visto? Sei tu che non riesci a starmi vicino senza perdere la testa.” le disse House.
“Sei un bambino House.” gli rispose infastidita, senza neanche voltarsi, mentre usciva dal suo ufficio.

31 gennaio, h 10.30
Luogo indefinito

Chase era partito prestissimo quella mattina.
La rabbia che aveva dentro gli diceva che doveva mollare tutto e starsene a casa, ma Foreman, con una lunga telefonata, l’aveva fatto ragionare: non poteva perdere il lavoro per un qualcosa che era solo temporaneo. La cotta per Cameron sarebbe passata e il suo capo sarebbe tornato ad essere, per lo meno, tollerabile.
Così decise di andare a cercare il ragazzino al posto di Foreman; questo gli permetteva di fare il suo lavoro, stando almeno per un giorno lontano dall’ospedale.
Quella mattina aveva conosciuto diverse persone, ascoltato tante storie tristi, visto parecchi visi magri e devastati dal tempo, allungato tante banconote e offerto diversi caffè. E non erano neanche le 11 di mattina.
Era stato faticoso per lui immergersi, da solo, in quell’ambiente, tra la gente di strada. Ma ci era riuscito, e aveva raggiunto il suo scopo.
Quel ragazzino, il presunto figlio della Pivet, era davanti a lui: seduto accanto ad un fuoco, in una vecchia fabbrica abbandonata, uguale a tutte le altre.
Era da solo, le spalle appoggiate svogliatamente contro la parete. Leggeva un libro che reggeva con una mano, l’altra, notò subito Chase, era abbandonata in grembo.
Se non fosse stato per i vestiti, sporchi e troppo grossi per lui, poteva sembrare un bambino qualunque.
“Ciao” gli disse, non avvicinandosi troppo per non spaventarlo.
Lui alzò lo sguardo spaventato, ma sembrò tranquillizzarsi subito appena vide che Chase era da solo e, dal suo aspetto, non sembrava né un poliziotto né un assistente sociale. Infatti il medico aveva avuto cura di vestirsi nel modo più informale possibile.
“La conosco?” chiese il ragazzino.
“No. Mi chiamo Robert Chase, sono un medico. Posso sedermi?”
“Prego.” rispose il ragazzo, facendogli spazio accanto a lui.
Il modo di fare educato e formale del ragazzino, era in contrasto col luogo in cui si trovavano e col suo aspetto. Tranne gli occhi: erano svegli e intelligenti, grandi ed espressivi. Chase vi riconobbe subito una forte somiglianza con quelli della Pivet.
“Come ti chiami?” gli chiese.
“Elliot, signore.”
“Bel nome.”
“Grazie, signore.” Elliot lo guardava, aspettando che Chase gli raccontasse come mai era lì.
“Non chiamarmi signore, non è necessario.” disse Chase, sorridendo al ragazzo.
“Va bene, sig…” anche Elliot sorrise. Chiuse il libro e lo posò accanto a sé, poi si rivolse ancora al medico. “Perché mi ha cercato?”gli chiese.
“Come fai a sapere che ho cercato proprio te?” gli chiese Chase.
“La voce che qualcuno stava chiedendo in giro di un ragazzino della mia età, mi è arrivata già un paio d’ore fa. Sono il più piccolo da queste parti, mi proteggono tutti.” rispose lui, serio.
“Fanno bene. A 12 anni bisognerebbe avere una famiglia, una casa, andare a scuola e giocare a football. Questo non mi sembra l’ambiente adatto ad un ragazzino.” gli disse Chase, pentendosene subito: non era lì per fare la predica al ragazzo.
“Ho tutto quello di cui ha parlato, dottor Chase.” rispose tranquillo Elliot, dimostrando di non esserne infastidito.
Anche se sembrava improbabile, Chase non riuscì a non credergli. Nei suoi occhi c’era una sincerità che aveva visto raramente sul viso di qualcun’altro.
“Non sono venuto qui per criticare il tuo modo di vivere, comunque.” tagliò corto il medico. “Devo chiederti una cosa.”
Elliot annuì.
“Conosci questa donna?” Chase gli mostrò la foto della Pivet.
“E’ mia madre.” rispose il ragazzino, distogliendo subito lo sguardo dalla foto e posandolo su Chase. Quest’ultimo era disorientato: si aspettava che negasse di conoscerla, o che si mostrasse sorpreso; che si mettesse a piangere o qualcosa del genere. Invece rimase impassibile, con la stessa serenità negli occhi di qualche minuto prima.
“Ma tu…non vivi con lei.” disse la prima cosa che gli venne in mente.
“No, io sto bene qui.” si limitò a dire il ragazzo, pacato.
Chase decise di non approfondire il discorso, era lì per avere delle informazioni sulla salute del figlio della sua paziente, nient’altro.
“Va bene. Devo dirti una cosa Elliot: tua mamma è malata. Potrebbe guarire presto, oppure no. Non sappiamo cos’abbia, stiamo cercando di aiutarla.”
Elliot annuì, per niente sorpreso da quello che gli stava raccontando.
“Sapevi che stava male?” gli chiese allora.
“Si.” disse in un soffio, e a Chase parve di vedere, per una frazione di secondo, un lampo di tristezza negli occhi del ragazzo. “Ma voi non potete fare molto.” disse poi.
“Cosa vuoi dire?” gli chiese il medico, stupito da quella frase. “Tua mamma è ricoverata in uno dei migliori ospedali del paese, ha degli ottimi medici che la seguono…”
“Deve portarmi da lei.” Elliot sembrò, improvvisamente, avere almeno vent’anni in più dei suoi.
“Vuoi…vuoi venire a trovarla?” gli chiese.
“Devo riuscire ad avvicinarmi a lei, dottor Chase. Sapevo che sarebbe venuto, sapevo che mi avrebbe cercato, e so che ora mi porterà da lei.” Elliot parlava con una sicurezza nella voce, insolita per un ragazzino.
“C’è la polizia con lei. Quando ti vedranno ti porteranno sicuramente in un istituto.” gli rispose Chase, esitante.
“Non mi vedranno, faremo in modo che non mi vedano. La prego dottor Chase, è molto importante.” Elliot appoggiò una mano sul braccio del medico, che lo guardò confuso.
“Il tuo braccio…” Chase ricordò improvvisamente perché era lì.
“Non si muove da tanti anni.” disse il ragazzo.
“Dovremo farti qualche analisi. Potresti avere un disturbo simile a quello di tua madre.”
“Ve bene. Mi porti con lei, allora.”
Chase annuì e si alzò.
Il ragazzo fece lo stesso, poi prese della terra e spense il fuoco.
Prese il libro e se lo infilò nel giubbotto: “Sono pronto.”

31 gennaio, h 10.45
Ufficio di House

“Tutto negativo.” disse Foreman, posando la cartella sulla scrivania di House, che alzò lo sguardo su di lui. “Niente infezione, solo questo.” porse un foglio al suo capo.
“Tutto questo, lo chiami solo questo?” chiese lui, alzandosi e dirigendosi alla lavagna.
“Non ha apparentemente nulla a che fare con i disordini motori.” disse il neurologo.
“Anch’io, grazie a questo bastone, sono apparentemente un povero, innocuo, zoppo.” House lo alzò, puntandolo al viso di Foreman, che fece un passo indietro. “Messaggio ricevuto.” disse.
“Quindi, cosa può dirci questa lesione all’area di Broca, unita al fatto che la paziente non sembra avere disturbi del linguaggio?” chiese House al neurologo.
“Così, senza sapere a quando risale la lesione, non saprei dire.” rispose Foreman. “Bisogna anche accertarsi che la paziente non abbia disturbi del linguaggio. Quel poco che ha detto a noi, non può essere abbastanza per escluderli.”
“Ecco perché ti ho assunto, a volte sei così…” House sembrò non trovare le parole. “…autosufficiente!”
“Vado.” rispose Foreman, uscendo.
House aggiunse un appunto sulla lavagna, poi si guardò attorno.
C’era un insolito vuoto ultimamente, attorno a lui.
La sala equipe era il luogo dov’era difficilmente solo, dove c’era sempre Foreman o Chase o Cameron, che lo infastidivano con la loro presenza.
Era tutto troppo tranquillo; ma dov’erano tutti?
Riflettè qualche secondo e si rese conto che, forse, quel vuoto veniva dai buchi della sua anima, che da autolesionista si procurava, strappando con violenza, fuori da sé, qualunque cosa gliela toccasse.

31 gennaio, h 10.50
Princeton Plaisboro Teaching Hospital

Cameron stava camminando per i corridoi del Plaisboro, cercando la Cuddy per mettersi d’accordo sulla versione finale della sua deposizione.
Aveva chiesto a Foreman di occuparsi da solo della paziente quella mattina, dicendogli che la prospettiva di dover parlare con quel poliziotto la agitava, e che aveva bisogno di concentrarsi solo su quello per adesso.
Foreman non le aveva creduto, ma si era offerto comunque di fare tutti gli esami da solo.
Il cellulare di Cameron squillò.
“Pronto?”
“Sono Chase.” disse la voce profonda del suo collega, dall’altra parte.
“Ciao, com’è andata?” chiese lei, distrattamente.
Chase avrebbe voluto chiamare Foreman, ma il suo telefono era spento, probabilmente era impegnato in qualche esame. Cameron era l’unica alternativa, House era fuori discussione.
“Ho trovato il ragazzo, è qui con me.”
“Bene. Quindi esiste veramente?” chiese Cameron, cercando un luogo silenzioso per poter parlare col collega. Scelse le scale, dove difficilmente passava qualcuno.
“Già. Ascolta, lo sto portando al Plaisboro, per fargli delle analisi.”
“Benissimo.”
“C’è un problema però.”
“Dimmi pure.”
“Il ragazzo vive in strada. Se qualcuno lo vede rischia di finire in istituto, dobbiamo predisporre tutto in modo che non venga notato.” disse Chase serio.
“Vuoi farlo venire in ospedale, fargli qualche analisi, e rimandarlo in strada?” Cameron era allibita.
“Lì c’è sua madre.” disse Chase.
“Si, che lo ha abbandonato anni fa, sa che è ancora vivo, e lo lascia a morire di freddo in qualche vecchio capannone. Dobbiamo fare la denuncia, Chase.”
“No. Non conosci Elliot e non conosci la loro storia, quindi evita di fare questo tipo di sentenze.” ribatté Chase, duramente. “Arriveremo verso le 14.00, ti chiamerò e mi raggiungerai all’ingresso. Sanno tutti che non ho fratelli né altri parenti in vita, porterai il ragazzo dentro l’ospedale con te, dicendo che è un tuo nipote o qualcosa del genere.”
Cameron ascoltò, incredula, gli ordini del collega. “Ma sei impazzito?!” gli disse alla fine.
Chase sospirò, dall’altro lato del telefono. “Allison, per favore, fidati di me.” le disse.
Cameron fu colpita dalla sincerità di quelle parole. “Va bene.” rispose “Aspetto la tua chiamata.”
“Grazie, a presto.” riattaccò.
Cameron rimase a riflettere qualche minuto sulle scale. Quel caso li stava portando ad andare oltre la loro professione di medici, stava mettendo in discussione tante cose. Sembrava che la follia che traspariva dalle persone coinvolte, la confusione, la paura, la disperazione, stesse penetrando dentro di loro, stesse invadendo come un cancro le loro vite. Anche i rapporti tra loro ne erano condizionati. Stava diventando tutto più intenso.
Sentì dei passi, qualcuno stava salendo le scale. Aspettò, trattenendo il fiato, e non sapendo neanche lei perché.
Era Wilson.
Vedendola si bloccò.
“Tutto bene?” la domanda uscì, per la seconda volta in pochi giorni, ad entrambi nello stesso momento.
Questa volta risero entrambi, nervosamente.
Wilson le si avvicinò. “House è un’idiota.” le disse.
“Si, Jimmy, lo è.” rispose Cameron, rassegnata.
“E’ accaduto qualcosa, ieri sera?” le chiese, notando che la prendeva una strana agitazione.
Lei annuì, abbassando lo sguardo. Poi tornò a guardare l’oncologo. “Un bacio.” gli disse.
“Ora capisco cosa faceva House nel mio ufficio alle 8 di mattina…” disse Wilson, pensieroso.
“Non credo abbia significato molto per lui. Sembra averlo già dimenticato, si comporta come prima. Sarà stato nel tuo ufficio perché è terribilmente curioso e voleva sapere di te e Cuddy.” continuò lei, rattristata.
“Non credo..” rispose pensieroso Wilson, riuscendo finalmente a mettere insieme alcuni pezzi che non gli tornavano.
“Che vuoi dire?” chiese, incuriosita, Cameron.
“Lasciami un po’ di tempo.” disse alla ragazza, stringendole amichevolmente un braccio.
Lei annuì, sorridendogli.
Non aveva molta fiducia nella possibilità che Wilson potesse capire cosa stava passando per la testa ad House, ma apprezzò il suo gesto.
“Grazie.” gli disse.
Dopo uno sguardo comprensivo, entrambi si congedarono.
 
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17fede
view post Posted on 17/12/2006, 15:36




:AngelStar09: Che bella!!!! Continuaaaaaaaaaaaa :Azzurro05:
 
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°vally°
view post Posted on 22/12/2006, 10:15




CAPITOLO 9

31 gennaio,h 11.50
On the road

Chase guidava ormai da quasi un’ora, e Elliot non aveva smesso neanche un minuto di studiare attentamente i suoi movimenti.
D’altra parte, lui osservava con la coda dell’occhio il ragazzino: il suo modo di fare, le sue espressioni, ricordavano tristemente quelle di un adulto. A volte però, la sua età era tradita da qualche gesto o da qualche parola, che faceva trasparire l’ingenuità e l’innocenza infantili. Non capiva bene perché, ma quel ragazzo lo colpiva molto.
“Ti piacciono le auto?” chiese ad Elliot, per rompere il silenzio, che incominciava a pesargli.
“Non lo so, ci sono salito pochissime volte e quando era più piccolo. Non ricordavo che bisognasse fare tutte queste cose per farla andare.” rispose lui, senza smettere di seguire con lo sguardo i suoi gesti.
A Chase venne da sorridere: Elliot sembrava un piccolo alieno.
“Dice che un giorno potrò guidare anch’io?” chiese al medico.
Probabilmente no, pensò questi; all’handicap del braccio paralizzato, si sommava la situazione in cui viveva…temeva che il ragazzo avrebbe passato tutta la sua vita in strada.
“Si, un giorno, quando sarai più grande.” mentì.
“Guardi che io lo capisco quando dice cose diverse da quelle che pensa. Non mi tratti come un bambino.” replicò Elliot, guardandolo negli occhi.
Chase si voltò qualche secondo, e la trasparenza di quello sguardo lo impressionò. Cercò di concentrarsi sulla guida.
“Prima di andare in ospedale ci fermeremo in qualche negozio a comprarti qualche vestito pulito.” disse al ragazzo, che si osservò distrattamente i jeans strappati e il giaccone macchiato.
“Dirà che sono il nipote di quella sua amica?” chiese Elliot, riferendosi alla conversazione telefonica ascoltata poco prima.
“Si. E’ un altro medico che segue tua madre. Dovrai reggere il gioco, credi di esserne capace?”
“Certo…” rispose, guardando fuori dal finestrino. Chissà quante volte aveva mentito in vita sua.
Finalmente Elliot sembrò rilassarsi e Chase decise di lasciarlo riposare un po’.
Un ragazzino così piccolo, cresciuto in una situazione difficile, che ora vedeva star male sua madre. Quel senso di impotenza…
Chase divenne improvvisamente cosciente del perché Elliot gli risultasse così familiare e lo colpisse così tanto.
A 12 anni non era molto diverso da lui.

31 gennaio, h 12.00
Ufficio della Cuddy

L’agente Jeson Dereck bussò alla porta dell’ufficio della dottoressa Cuddy, ed entrò senza aspettare il suo invito.
Bastò questo per far capire a Lisa con chi aveva a che fare.
“Buongiorno dottoressa.” disse il poliziotto, prendendo subito posto sulla sedia davanti alla sua scrivania.
“Buongiorno agente Dereck.” rispose questa, tendendogli la mano. “Lisa Cuddy.”
“Si, ho letto sulla porta.” l’insolenza del detective avrebbe reso tutto più complicato.
“Allora scriverlo lì è servito a qualcosa…” mugugnò la Cuddy tra i denti.
“Prego?” chiese lui, sporgendosi verso la dottoressa.
“Niente, lasci perdere.” rispose quest’ultima, sorridendo nel modo più cordiale possibile.
“Allora…” incominciò Dereck “faccia subito chiamare la dottoressa…” fece gesto alla Cuddy di aiutarlo.
“Allison Cameron.” intervenne lei.
“…si, brava. Nel frattempo che arriva ho bisogno di scambiare due parole con lei.”
La Cuddy avvisò Cameron sul cercapersone, di presentarsi tra qualche minuto nel suo ufficio. Erano riuscite a provare velocemente la versione dei fatti ed quindi era sicura che, almeno con lei, sarebbe andato tutto bene.
“Sarà qui tra pochi minuti.” disse all’agente “Mi dica pure.” incrociò le mani in grembo.
“Devo darle qualche informazione sulla paziente, informazioni strettamente riservate che però è necessario che sappia. Pare che la donna gestisca una sorta di setta di barboni, una setta che venera la funzione generatrice della donna, o qualcosa del genere. C@zz@te, insomma.” l’atteggiamento arrogante del poliziotto incominciava ad irritarla.
“Ed è in arresto per questo?” chiese lei.
“No. Ci sono stati fenomeni strani negli ultimi mesi, nella zona dove è stata ritrovata la Pivet. Alcune donne incinte hanno portato a termine in strada la gravidanza, cosa che accade spesso, ma non si sono mai visti i bambini. C’è stato poi uno strano giro di soldi… Ma questo non è affar suo. Quello che deve sapere è che quella donna è molto furba, e molto probabilmente è implicata in affari sporchi. E’ importante che la facciate parlare il meno possibile e che la curiate in fretta. Ho bisogno di portarla in carcere; devo riuscire a spaventarla abbastanza da farmi dire quello che sa.” disse l’agente Dereck.
“Purtroppo il disturbo della signorina Pivet sembra essere molto serio e non abbiamo ancora una diagnosi.” disse la Cuddy, porgendo la cartella della paziente al poliziotto. “L’equipe del dottor House, uno dei migliori medici dell’ospedale, sta facendo il possibile per…”
L’agente Dereck le ripassò la cartella, senza neanche degnarla di uno sguardo. “Senta, non capisco niente di questa roba e non mi interessa cos’ha quella donna. Voglio solo che sia in piedi il prima possibile, per poterla portare fuori di qui, nel mio territorio. Sono qui adesso solo perché quella sua dottoressa ha lasciato la macchina nel luogo del ritrovamento, perché i suoi medici se ne sono andati in giro a fare i detective invece di fare il loro lavoro. Quindi ora…”
“Cuddy…” Cameron entrò nell’ufficio, attirando l’attenzione del poliziotto.
Lisa ringraziò mentalmente Cameron di essere arrivata al momento giusto: ancora qualche parola dell’agente Dereck e lo avrebbe sbattuto fuori dal suo ospedale a calci, fregandosene delle conseguenze legali.
“Cameron, vieni pure. Ti presento l’agente Dereck.” la dottoressa strinse la mano all’uomo. Gli occhi piccoli, che la squadrarono da capo a piedi, le ispirarono tutt’altro che fiducia.
“Salve. Stavo appunto dicendo alla dottoressa Cuddy che dovrebbe preoccuparsi di tenere i suoi medici in ospedale e di non farli andare a spasso per la città…” Dereck istigò subito Cameron, che però si era preparata a una provocazione del genere.
“Le condizioni della paziente erano veramente molto gravi, agente Dereck. Pensavamo solo che qualche persona in più in giro a cercarla, sarebbe stata solo d’aiuto e avrebbe reso più rapido il ritrovamento.” rispose infatti, come da copione.
L’agente Dercek fece un sorriso tutt’altro che amichevole e si rivolse alla Cuddy. “Scusi dottoressa, può lasciarci soli? Questo genere di interrogatori devono essere svolti a quattr’occhi. E’ la prassi…”
Lisa rimase immobile per qualche secondo, indecisa sul da farsi. Poi decise di evitare di fare polemica: il suo scopo era liberarsi di quell’uomo nel più breve tempo possibile, e il modo più rapido per farlo era eseguire i suoi ordini.
“Va bene, vi lascio soli.” disse e, lanciato uno sguardo incoraggiante a Cameron, lasciò la stanza.

Decise di cercare House. C’era il rischio che quel poliziotto odioso chiedesse di lui, e in quel caso sarebbe stato difficile evitare una strage.
Salì al piano di sopra.
Lo trovò che si aggirava nervosamente tra il suo ufficio e la sala equipe, guardandosi in giro.
Quando lei varcò la soglia, stava cercando qualcosa sotto la scrivania.
“House, hai perso qualcosa?” gli chiese, divertita.
“Dov’è Cameron?” disse di rimando lui, continuando a cercare, ora in mezzo a dei libri.
“La cerchi sotto la scrivania?”
“Si, ho retrocesso la sua funzione qui a quella di stagista.” rispose lui.
Cuddy alzò lo sguardo al soffitto, incassando la battuta. “Devo parlarti…” cercò di attirare la sua attenzione, ma House continuava a spostarsi da una stanza all’altra, spostando rabbiosamente tutto quello che trovava.
“Ti ho chiesto dov’è Cameron.” insistette.
“Ora è impegnata…posso aiutarti io?” gli chiese, bloccandogli la strada tra l’ufficio e la saletta.
“No, può aiutarmi solo lei.” le disse, dirigendosi verso l’altra porta. “E’ impegnata dove?”
“Nel mio ufficio. Ti devo parlare House!”
Ma lui aveva già raggiunto rapidamente l’ascensore, che si chiuse davanti alla Cuddy.
Lei sospirò e si diresse verso le scale.
“Cuddy!” la chiamò una voce alle spalle.
Era Foreman. “Ho bisogno del tuo aiuto. “ le disse. “Quegli energumeni che fanno da guardia alla Pivet mi fanno storie quando devo trasportarla da uno studio all’altro. Io non posso lavorare con loro che mi mettono i bastoni tra le ruote.”
“Ci parlo io.” disse lei seguendolo.
La prospettiva di poter sfogare la rabbia accumulata per colpa di quell’arrogante dell’agente Dereck, le fece dimenticare House.

31 gennaio, h 12.10
Ufficio della Cuddy

L’interrogatorio fu più impegnativo di quando Cameron e la Cuddy avessero previsto. L’atteggiamento provocatorio e autoritario dell’agente Dereck stava turbando Cameron, che faceva fatica a mostrarsi tranquilla e rilassata come avrebbe dovuto.
Il modo di fare del poliziotto la innervosiva e questo confondeva la sua versione dei fatti.
“Quindi è stata un’idea comune che vi a spinto ad andare in giro a cercare la paziente scomparsa? Molto democratico…e altrettanto impensabile. Mi dica chi ha avuto la brillante idea di giocare ai detective.” la istigò il poliziotto.
“Le ho detto che è stata un’idea comune. La paziente era molto grave e…” ripeté lei per l’ennesima volta.
In quel momento sentì aprirsi violentemente la porta dell’ufficio, dietro di lei. Si voltò.
House entrò speditamente, ignorando il poliziotto.
“Dov’è la mia tazza?” le chiese esasperato.
“Cosa?” rispose lei confusa.
“Voglio sapere dove diavolo è finita la mia tazza. Ieri sera era sulla mia scrivania, oggi scomparsa. Sei tu che hai la sindrome della massaia, e sei tu la diretta responsabile del mio caffè. Voglio sapere dov’è finita.”
“Non l’ho vista stamattina…” rispose Cameron, perplessa per l’agitazione di House.
Lui sospirò e rimase immobile. Sembrava non aver notato l’uomo seduto di fronte a lei.
“Scusi, lei chi è?” chiese questi, rivolgendosi al diagnosta.
House lo osservò qualche secondo, cercando di capire cosa stava accadendo. Ad un certo punto sembrò ricordarsi del colloquio che Cameron doveva fare col poliziotto.
Agganciò col bastone una sedia, l’avvicinò e si sedette.
“Io sono il dottor House, capo di questa graziosa fanciulla.” la indicò con un gesto della mano.
“Bene dottor House, se non le dispiace ho bisogno di parlare da solo con la dottoressa.”
“Se non le dispiace, io rimango. Se le dispiace, rimango lo stesso.Quindi non stia a dirmi se è dispiaciuto oppure no, mi farebbe sentire in colpa inutilmente.” rispose House, inamovibile.
Dereck sembrò voler replicare qualcosa, poi si bloccò. Evidentemente aveva trovato il modo di sfruttare la situazione a suo vantaggio.
“Bene, allora farò qualche domanda anche a lei.” disse rivolgendosi ad House.
Cameron incominciò a preoccuparsi.
“La sua collega mi stava parlando del momento in cui è stato scelto di andare a cercare la paziente. Volevo sapere chi ha preso questa decisione.”
“Nessuno, è stato un caso!” rispose House deciso.
“Un caso?” chiese perplesso il detective.
“Esattamente agente. Eravamo usciti tutti insieme per festeggiare la fuga della paziente, sa, in questi casi abbiamo la giornata libera e non accade di frequente, quando, girando alla ricerca di un luogo appartato per sparare i fuochi d’artificio…”
“La smetta di prendermi in giro!” lo interruppe Dereck, capendo dove voleva arrivare House.
Cemeron si passò una mano sulla fronte, sconvolta.
“Non ho tempo da perdere, esca subito da questa stanza e mi faccia terminare il colloquio con la dottoressa Cameron.” ordinò Dereck al medico.
“No, la dottoressa Cameron lavora per me, quindi finché non risolve il mio problema, le impedisco categoricamente di sollazzarsi con altre attività, come quella di conversare con lei, agente.”
Cameron lo guardava incredula.
“Io sono un poliziotto e questo è un interrogatorio!” esclamò Dereck, alzandosi. “Esca subito di qui!”
“Lei viene con me.” rispose House alzandosi, e tirando Cameron per un polso, per farle fare lo stesso.
Lei, non sapendo esattamente cosa fare, non oppose resistenza e si alzò.
“Bene.” disse il poliziotto, riacquistando il controllo di sé “credo di aver capito da dove è venuta l’idea di cercare la Pivet. Ora però devo sapere come mai l’avete trovata prima di noi e perché non ci avete avvisato delle indicazioni che avevate, nonostante la dottoressa Cuddy avesse avuto l’ordine di riferirci ogni nuova informazione.”
“La Cuddy?” chiese House, senza lasciare il polso di Cameron. “Ha provato a contattarci ma non le abbiamo risposto. Sa, è una tale scocciatura…”
“Quindi avete ignorato le chiamate del vostro capo. Bhè, le conseguenze di questo non sono affar mio.” disse Dereck “Ora spiegatemi come avete fatto a trovare la donna, poi vi lascio andare a cercare la vostra tazza scomparsa.” continuò, sprezzante.
“Abbiamo incontrato una barbona che ci ha guidato da lei e poi è scappata.” Cameron precedette House, cercando di migliorare la situazione.
“Avete incontrato una barbona…per caso?” chiese sospettoso Dereck.
“No, è una prostituta che, in quanto suo fedele cliente, mi ha voluto dare una mano nelle ricerche.” si intromise House.
Cameron, con uno strattone, si liberò della presa di House. “Era una barbona che abbiamo incontrato per caso chiedendo un po’ in giro nei pressi dell’abitazione della Pivet.” disse al poliziotto tutto d’un fiato “Ha detto di aver visto una donna aggirarsi in camice ospedaliero alle prime luci dell’alba e che questa le ha offerto dei soldi per andarle a comprare dei vestiti. Ci ha portato dove l’aveva vista l’ultima volta ed è lì che avete trovato la mia macchina.”
Dereck annuì. “E perché non avete recuperato la macchina?” chiese alla donna.
House sembrò voler dire qualcosa, ma Cameron lo precedette: “Perché ci siamo spaventati per l’arrivo della polizia. Sapevamo che quello che stavamo facendo andava al di fuori delle nostre competenze, quindi siamo tornati in taxi.” Questo, almeno, si avvicinava alla verità.
“Va bene.” disse il poliziotto. “Tralascerò il fatto che mi ha esposto la sua versione come se l’avesse imparata a memoria. E’ ora di pranzo e ho fame. Quello che mi ha detto, basta a far terminare il mio lavoro qui.”
Si avvicinò ad House. “Spero vivamente di non incontrarla in futuro. Quindi veda di far guarire in fretta la Pivet, così che io non debba più tornare qui ad approfondire la vostra giornata di ieri e a rivedere la sua brutta faccia.”
Detto questo uscì rapidamente dall’ufficio della Cuddy, senza permettere ai due di replicare.
“Ti rendi conto che hai rischiato di farci andare tutti nella m€rd@?” lo aggredì Cameron, appena il poliziotto si fu allontanato.
“E’ solo un pallone gonfiato…” rispose sprezzante, ignorando la collera della collega.
“House! Hai rischiato di mandare a monte tutto, abbiamo fatto una str0nz@t@ a cacciarci nella situazione di ieri, e c’è il rischio che se la prendano sia con noi che con l’ospedale!” ribatté lei.
“La Cuddy ha iniziato anche te al sacrificio in nome di questo edificio?” le chiese House.
Lei tentò di obiettare qualcosa, ma lui la anticipò: “Mi vuoi dire dove hai messo la mia tazza?”
“Non me ne frega niente della tua dannata tazza! Sei un idiota! Sei un bambino…” le lacrime spingevano per uscire allo scoperto, ma lei le ricacciò indietro.
House si voltò a guardarla; era evidente che la rabbia che aveva davanti, per l’ennesima volta in pochi giorni, non derivava dal comportamento che aveva avuto con il poliziotto.
“Calmati.” le disse dolcemente.
Vedendo che lei continuava a tenere i pugni serrati e a respirare a fatica, nel tentativo di trattenere le lacrime, le appoggiò una mano sulla spalla.
Cameron la allontanò via da sé bruscamente.
Questo gesto colpì House, che non si aspettava un rifiuto così deciso da parte sua.
“Smettila di fare la bambina offesa!” la provocò.
“Stai zitto.” gli ordinò lei, a denti stretti, guardando lontano da lui nel tentativo di calmarsi.
Il tono risoluto della sua voce stupì ancora House.
Passarono pochi istanti in cui non accadde nulla, poi House, destabilizzato dalle reazioni della donna, si voltò e se ne andò senza dire niente.

31 gennaio, h 12.30
Ufficio di House

House entrò nel suo ufficio, lasciò cadere in terra il suo bastone e si abbandonò sulla sedia, portandosi la testa tra le mani. Rimase così diversi minuti, finché la voce di Wilson non lo fece sobbalzare.
“Tu sei nei guai amico mio…” gli disse, raccogliendo il suo bastone e punzecchiandolo con questo.
House si tirò su di scattò e tolse bruscamente il bastone dalle mani dell’amico. “Molla.” gli disse, guardandolo torvo.
“Ho capito che facevi alle 8.30 di mattina nel mio ufficio oggi.” disse Wilson, sorridendo. “La piccola, dolce Allison ha rapito cuore del suo burbero capo!”
“La Cuddy ti ha dato alla testa? Vedi il mondo tutti a cuoricini. Fossi in te andrei a farmi una doccia gelata.” ribatté House, poco convinto.
Wilson rise: “Ma guardati! Sei sconvolto.”
“Smettila di ridere, razza di mostriciattolo fastidioso. Si può sapere come faccio a liberarmi di te? Ho bisogno di stare un po’ da solo per fare chiarezza nei miei pensieri.” disse House, buttando la testa indietro sulla sedia e coprendosela con la giacca.
“E pensi di riuscirci? Se ti lascio qui da solo tra qualche minuto concluderai che non è successo niente, che quel bacio è stato solo un caso e che la sua è solo una cotta da ragazzina o qualche str0nz@t@ simile.”
House si tolse la giacca dal viso e guardò l’amico.
“Come diavolo fai a sapere che mi ha baciato?”
“TI ha baciato?” chiese Wilson, fingendosi sorpreso.
“Si, mi è praticamente saltata addosso.”
“House, io non so com’è andata, ma non credo che Cameron sia il tipo da…”
“No? Chiedi a Chase.” lo interruppe lui, sarcastico.
“Già, la sua avventura con Chase! Vedi che c’era qualche pezzo del puzzle che mi mancava. Ora mi è più chiara la tensione tra voi negli ultimi giorni…” Wilson non demorse.
House rimase in silenzio, la giacca copriva ancora il suo volto.
“Ehi, ci sei?” chiese Wilson, alzando leggermente un pezzo di stoffa.
“Vattene!” fu la sola parola che arrivò da lì sotto.
Wilson scoprì rapidamente il viso dell’amico.
“Questa non è violazione della privacy! E’ un vero e proprio attacco con tutta la cavalleria! Ma cosa vuoi?!” House sembrava davvero seccato.
“Ok, scusami.” disse Wilson, sedendosi di fronte a lui. Le maniere forti andavano bene fino a un certo punto con House. “Raccontami cosa è successo.”
“Te l’ho già detto oggi che non sei il mio diario segreto, o sbaglio?”
“Si, me l’hai detto. Ma stamattina eri venuto nel mio ufficio a raccontarmi qualcosa, e non era la tua avventura di qualche anno fa con Lisa.” disse Wilson, serio. “Eri venuto a parlarmi di Cameron.”
“Dopo che ci vai a letto, incominci a chiamarle per nome?!” replicò House, con fare beffardo.
“Si. Dai racconta quello che volevi dirmi.”
House sospirò: era indeciso tra il cacciare l’amico e il tentare di fuggire dalla stanza. In entrambi i casi, non l’avrebbe avuta vinta. Quando Wilson si metteva in testa che lui aveva bisogno di confidarsi, lo tormentava finché non riusciva a scucirgli qualcosa. Tanto valeva tagliare la testa al toro…
“Volevo solo dirti che è il caso di cambiare le lenzuola del letto…” gli disse, sorridendo.
“Cosa?! Ci sei stato a letto? Nel mio letto?!” chiese Wilson, indignato.
“No…scherzavo.” rispose House, continuando a sorridere.
“E allora perché quel sorrisino?”
“Dovresti vedere la tua faccia. Dalla tua espressione deduco che anche tu hai un’immaginazione fervida come la mia…”
“House per favore, arriva al dunque.”
“Ci siamo baciati. Basta, tutto qui.”
“Ti è saltata veramente addosso?”
“No. Io mi sono avvicinato troppo e lei…non s’è fatta scappare l’occasione.”
“E perché ti sei avvicinato?”
“Per sentire se aveva la febbre.”
Wilson lo guardava perplesso.
Rimasero qualche secondo in silenzio.
“E’ bella.” disse House ad un certo punto.
“Si, molto.” rispose Wilson.
“Ehi…” House si finse offeso.
“Scusa! Volevo dire…tu cosa volevi dire?” chiese all’amico.
“Che lei è una bella donna, giovane e pazza di me. Io sono un uomo e…è normale che mi attiri.”
Wilson non rispose, continuando a guardarlo pensieroso.
“Non è normale?” gli chiese House.
“E’ normale che tu ci voglia andare a letto, ma non che ti venga voglia di avvicinarti a lei e guardarla mentre dorme. Per quanto tempo l’hai osservata prima che si svegliasse?”
“Mmm…un po’.” rispose House, distogliendo lo sguardo dall’amico.
Wilson annuì.
“Lo sai che sei davvero odioso quando fai così?! Forza, spara la tua sentenza e poi fuori di qui, devo lavorare.”
Il limite di tolleranza di House ai discorsi seri era stato raggiunto. Se alzò per congedare l’amico.
“Secondo me” disse Wilson alzandosi e dirigendosi verso la porta. “dovresti provare a lasciarti andare con lei. Non devi permettere alla tua paura di soffrire, di impedirti di vivere le cose belle che hai attorno.”
“Si, molto suggestionante come frase. Me la scrivo, promesso. Ora fuori dai piedi.”
Wilson scosse la testa sorridendo, poi se ne andò.


31 gennaio, h 13.30
Princeton Plaisboro Teaching Hospital

Cameron stava cercando Foreman in giro per l’ospedale.
Voleva essere aggiornata sul caso, voleva mettere tutte le sue energie a servizio del suo lavoro.
Si rendeva conto che era piena di rabbia e di frustrazione, che l’avrebbero solo logorata. Doveva dirigere tutta questa forza verso qualcosa di produttivo.
“Domani hai da fare sei ore di ambulatorio.” House la raggiunse da chissà dove e si mise a camminare al suo fianco.
“Cosa?! Perché?” chiese lei, bloccandosi.
“Chese non ha fatto le sue, e domani avrò bisogno di lui. Quindi lo sostituisci tu.” House non smise di camminare.
Lei lo raggiunse accelerando il passo. “Cosa significa? Puoi chiedere benissimo a qualcun altro di sostituirlo, abbiamo un caso importante.”
“Lo so. Ma tu mi hai dato dell’idiota, del bambino e mi hai ordinato di stare zitto. Tutto quanto in…più o meno 15 secondi. Visto che sono il tuo capo, questa è l’arma che ho per vendicarmi. Oltre al mio bastone, ma se mi becco un’altra denuncia per aggressione, chi la sente la Cuddy? Non ne vale la pena…” rispose lui, continuando a camminare, impassibile.
Cameron lo afferrò per un braccio, costringendolo a girarsi verso di lei.
Prima che potesse aprir bocca però, House le mise un dito sulle labbra e le disse: “Ssshhh. Stavo scherzando.” spostò lentamente il dito dal suo viso.
Lei lo guardava incredula. “Si può sapere che razza di gioco sadico stai facendo con me, House?” gli chiese, con voce tremante.
Lui sembrò studiarla per qualche secondo. “Sei bella.” le disse poi. “Lo sai, vero?”
Cameron era confusa; balbettò un “si” poco convinto.
“Perché pensi che stia giocando con te?” le chiese poi.
Cameron rifletté un po’ prima di rispondergli: “Mi provochi. Sai che provo qualcosa per te e ti diverti a giocare coi miei sentimenti. A me non piace provare rabbia nei tuoi confronti. Tu fai in modo che succeda, e spesso. Non capisco perché… Preferivo il rapporto più distante e neutro che avevamo sviluppato da qualche mese, mi permetteva almeno di concentrarmi sul lavoro.”
“Stai mentendo.” le disse lui.
“Non è vero” ribatté lei.
“Si invece. Non è vero che sei infastidita dalle mie provocazioni. Ti danno un alibi per arrabbiarti con me, per sfogare in qualche modo i tuoi istinti nei miei confronti. Ed è un bene, pensa un po’ a cosa è accaduto nel periodo in cui non ti punzecchiavo continuamente.”
“Cosa intendi dire?”
“Sei finita a letto con Chase.”
“Non c’entra nulla.”
“Si invece.”
Cameron sorrise.
Questo destabilizzò House.
“House, smetti per un po’ di analizzare me, e guardati dentro.”
“E’ tutto buio. Tu invece sei trasparente, un libro aperto.”
“Se fosse così non continueresti a tormentarmi. Se lo fai è perché c’è qualcosa in me che ti attira, e non è solo la bellezza.” la sicurezza nella voce di Cameron contrastava il leggero tremore delle sue labbra.
“Ehi, non stiamo volando un po’ troppo in alto? Stai peccando di superbia, dottoressa.”
“Non sono una suora House, né una bambina. Questo mettitelo bene in testa. Se io sto al gioco ci sarà un motivo, hai ragione. Non credo sia molto diverso da quello che spinge te a continuare a giocare.” Cameron era terrorizzata da quello che stava facendo. Stava al suo gioco, ma si era calata nella parte di House: lo stava provocando. Sperava di non tradirsi, di non far trasparire il timore che aveva dentro.
“Se abbiamo un buon motivo tutti e due” disse House, squadrandola da capo a piedi “non vedo perché smettere. Più si va avanti, più si alza la posta in gioco.”
“Sarebbe ora.” concluse lei, maledicendosi mentalmente per quelle due parole che aveva pronunciato.
Il suono del telefono di Cameron fece trasalire entrambi. Un’altra volta.
“Pronto?” rispose.
“Siamo arrivati, esci.” disse Chase, e riattaccò.
“Devo andare…” disse lei al suo capo e, voltandosi, si diresse verso l’uscita dell’ospedale, cercando di riprendere a respirare regolarmente.
Entrambi andarono per le loro strade pensando a quanto paradossale fosse stata quella loro conversazione.
 
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17fede
view post Posted on 22/12/2006, 20:36




Non c'è che dre...scrivi benissimo!! Chissà che fine fanno i bambini??? E' un dubbio che mi tormenta..continuala presto!!...non solo per il dubbio..
 
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°vally°
view post Posted on 25/12/2006, 12:26




CAPITOLO 10

31 gennaio, h 13.45
Parcheggio del Princeton Plaisboro Teaching Hospital

Cameron scese nel parcheggio dell’ospedale e, individuata la macchina di Chase, vi si diresse rapidamente.
Il medico stava riponendo qualcosa nel bagagliaio, un ragazzino stava in piedi accanto a lui, osservando i suoi movimenti.
Questi si voltò a guardarla quando fu accanto a loro, e le sorrise. Cameron non poté fare a meno di rispondergli allo stesso modo: la dolcezza di quel bambino la colpì dal primo momento, così come la strana luce nei suoi occhi. Non poteva essere altri che il figlio della Pivet.
“Buongiorno Allison.” disse Chase, chiudendo il bagagliaio. “Lui è Elliot.”
“Ciao.”
“Buongiorno signora.” Elliot porse la mano a Cameron, che gliela strinse, notando contemporaneamente l’altro braccio, inerme lungo il fianco dal ragazzino.
“Elliot è un concentrato di buona educazione e cortesia.” disse Chase, appoggiando una mano sulla spalla del ragazzo e sorridendo. Cameron non lo vedeva così di buon umore da settimane.
“Hai avvisato qualcuno del suo arrivo?” chiese alla collega.
“No. Ho avuto il colloquio con l’agente Dereck e…diciamo che non ho avuto tempo.”
“Non è un problema. Se lo spacciamo per tuo nipote possiamo portarlo in giro per l’ospedale tranquillamente.” rispose Chase, guardando il ragazzino con espressione rassicurante.
“Ti lascio in ottime mani, Elliot. Dovremo farti una tac al braccio, tanto per cominciare. Vado a preparare la macchina, sperando che sia libera. Nel frattempo Cameron può farti una visita veloce in ambulatorio, che dici?”
Elliot sembrava preoccupato, quell’ambiente così diverso dal suo incominciava a metterlo a disagio. “Va bene dottor Chase, se è necessario. Non si dimentichi che ha promesso di farmi incontrare presto mia madre.” rispose serio.
“Certo. Per questo è però necessario che la allontaniamo dai poliziotti, dobbiamo studiare un modo per farlo.” disse Chase, rivolto a Cameron.
Lei esitò qualche secondo. “Non sarà facile, non la perdono d’occhio neanche un istante.” replicò perplessa. Sembrava che Chase avesse già deciso cosa fare, senza tener conto della situazione in ospedale. Quel ragazzino sembrava stargli molto a cuore.
“Entro stasera ti porto da lei, promesso.” ribadì, rivolto al ragazzo.
“Tienilo sempre con te, non lasciarlo con House o con nessun’altro.” disse serio a Cameron.
“Dovrò dire ad House e Foreman che è il figlio della paziente, e spiegargli la situazione.” ribatté Cameron, osservandolo attentamente.
Sembrava che quella gita di mezza giornata avesse allontanato da lui tutto il rancore e la rabbia che aveva dentro. Non lo aveva mai visto interessarsi tanto a una persona, responsabilizzarsi fino a questo punto per un paziente.
“Si, certo che devi dirglielo. Voglio però che stia sempre con te.” Elliot si allontanò per prendere qualcosa rimasto nell’auto. “Ha 12 anni. E’ solo un ragazzino, anche se in gamba” continuò abbassando la voce “Si fida di me e gli ho detto che può fare affidamento su di te. Non voglio che si senta abbandonato in un luogo che non conosce. Mi prometti che non lo lascerai un secondo?”
“Va bene Chase, ti prometto che resto sempre con lui.” rispose Cameron, titubante.
“Grazie.” Si voltò verso Elliot “Io devo andare, ci vediamo dopo.”
“Va bene dottor Chase, a dopo.”
Il medico si diresse rapidamente verso gli ascensori.
“Il dottor Chase dice che posso fidarmi di lei.”
Cameron sorrise. “Andiamo” disse dolcemente al ragazzo, incominciando ad incamminarsi.
“So che ha ragione, i suoi occhi sono trasparenti, dottoressa. Io so che lei è una persona buona. Non deve avere paura a portarmi con sé, non succederà nulla di male.” proferì il ragazzino, camminando al suo fianco.
Senza che fosse conscia del perché, un brivido percorse la schiena di Cameron.

31 gennaio, h 14.15
Ufficio di House

House aveva posizionato una sedia davanti alla lavagna, e stava cercando di riflettere. Aveva bisogno di reimmergersi nel suo lavoro, nel suo ruolo.
Era un medico e aveva un caso: questa era tutta la sua vita, da anni.
Ciò che era accaduto negli ultimi giorni, a lui e a tutte le persone accanto a lui, lo avevano allontanato dall’unico scopo delle sue giornate che riteneva importante: trovare la diagnosi corretta.
La paziente aveva bisogno che tutta l’attenzione del diagnosta fosse su di lei, per sopravvivere. Probabilmente House stesso aveva bisogno della medesima cosa, per non finire in balia di strani pensieri e strani sentimenti, tutte cose che non era bravo a gestire.
Un paziente si, invece. Quello poteva gestirlo benissimo.

Lato destro del corpo in preda a tremore incontrollato, spasmi alla gamba sinistra: probabile disturbo a livello cerebellare. Lesione all’area di Broca, cicatrizzata da anni e che non sembrava avere conseguenze sul linguaggio. Probabilmente risaliva all’infanzia, e la plasticità cerebrale aveva permesso che le funzioni linguistiche fossero completamente recuperate. La paziente però negava di aver avuto disturbi del linguaggio in passato. House non la considerava comunque attendibile: i suoi ricordi risultavano confusi, probabilmente era una donna che mentiva spesso e ora, indebolita dalla malattia, stava perdendo il filo che teneva insieme tutte le sue bugie.
Secondo Foreman, e secondo la logica medica, quella lesione cicatrizzata era un elemento a sé stante, non correlato ai disturbi motori, e completamente innocua.
Il suo istinto gli diceva che invece qualcosa c’entrava, anche se gli mancavano le argomentazioni per convincere il neurologo o chiunque altro. Ma questo non era mai stato un problema per lui, quelle si sarebbero presto fatte strada nella sua testa.
Poi c’era l’andamento ciclico del sintomo. Era successo qualcosa che l’aveva fatto scomparire e qualcos’altro che l’aveva fatto tornare, accompagnato dagli spasmi al lato sinistro. Inoltre, c’era la paralisi che non si era ripetuta.
House lasciò cadere il suo yoyo sul pavimento e incrociò le braccia sul petto, senza smettere di guadare la lavagna.
Brancolava nel buio, e questo lo sconvolgeva.
“House?” Foreman si affacciò nella sala equipe.
“Novità?” chiese lui, senza distogliere lo sguardo dalla lavagna.
“Si. Labirintite. Qualunque cosa abbia la Pivet, ora ha raggiunto anche il tronco encefalico.”
“Scrivilo lì.” disse House al neurologo, porgendogli il pennarello.
Foreman lo prese titubante e aggiunse il sintomo alla lista.
“Ora prendi una sedia e mettiti accanto a me.”
Foreman fece come gli diceva. “Cosa stiamo facendo?” chiese al suo capo, una volta seduto.
“Aspettiamo l’illuminazione.” rispose quest’ultimo, lo sguardo perso sulla lista di termini di fronte a lui.
“Mi prendi in giro?”
“No. Stiamo andando alla cieca, Foreman. Dobbiamo fermarci un attimo a pensare. Pensare solo a lei, solo alla malattia, per un po’.”
Il neurologo lo guardava perplesso: l’aveva visto diverse volte passare ore ad osservare la lista di sintomi per poi arrivare a una soluzione, ma non aveva mai coinvolto nessuno di loro. Venivano spediti a fare esami e tentare terapie varie, venivano obbligati a fare ad alta voce qualunque ragionamento. Questa pausa che House gli imponeva gli fece capire che quella volta il suo capo aveva veramente le idee confuse.
Stettero alcuni minuti in silenzio, cercando entrambi di mettere insieme i pezzi di quel complicatissimo puzzle.
Ad un certo punto House si voltò verso Foreman: “Dov’è Cameron? Dovrebbe essere qui a fondersi il cervello assieme a noi.”
“Non lo so, è da un po’ che non la vedo.” rispose il neurologo.
“Non l’hai chiamata tu, pochi minuti fa?”
“No.” rispose esitante Foreman “Non la vedo da stamattina.”
House rifletté qualche secondo.
“Chase?” chiese poi.
“Credo sia ancora in giro a cercare il ragazzo. Sempre che esista…”
House annuì pensieroso. “Non si sta male, solo io e te.” disse al neurologo. “Si riesce a pensare meglio.”
“E a concludere la metà” replicò Foreman alzandosi. “Non puoi permettere che i vostri problemi personali interferiscano in questo modo col lavoro, House! Questo caso è difficile, abbiamo bisogno di lavorare tutti e quattro assieme, di comunicare!”
“E’ sempre così: prima si smette di comunicare, poi cala il desiderio sessuale…Dovremmo chiedere alla Cuddy di pagarci uno psicologo per risolvere i nostri problemi familiari…” ironizzò House.
“Il problema sei solo tu. Il tuo comportamento sta mandando in confusione Cameron, e sta facendo inc@zz@r€ Chase. Ti conviene darti una calmata, se vuoi riuscire a capire cos’ha questa donna.” disse con trasporto Foreman, indicando la lavagna davanti a loro “Non sto neanche a dirti quello che penso sulla motivazione che ti spinge a provocare i miei colleghi, servirebbe solo a ricevere una risposta acida e a essere preso di mira per un po’. Spero solo che tu abbia un minimo di consapevolezza del gioco che stai facendo, perché a breve ti renderai conto che non stai giocando solo con i loro dei sentimenti, ma anche con i tuoi.” Foreman smise di parlare e rimase a guardarlo in silenzio, aspettandosi un aspro contrattacco.
“Amen.” si limitò a dire invece House, rimettendosi ad osservare la lavagna.
Il neurologo rimase qualche secondo in piedi, incredulo davanti all’apatia del suo capo.
“So che guardarmi dall’alto in basso ti fa sentire terribilmente potente e adori quella posizione…ma ho bisogno che ti siedi qui con me e che continui a ragionare sul disturbo della Pivet.” disse House con voce neutra.
Foreman, disorientato dal comportamento del suo capo, ubbidì al suo ordine senza dire una parola.

31 gennaio, h 14.30
Princeton Plaisboro Teaching Hospital

Cameron aveva fatto una visita generale ad Elliot, che sembrava essere in ottima salute, a parte quel braccio paralizzato dalla spalla in giù, e completamente insensibile.
Il ragazzino, da quando era entrato nell’ospedale, era diventato silenzioso e teso. Cameron aveva provato a parlargli per tranquillizzarlo, ma le rispondeva a monosillabi e sembrava anche imbarazzato dal fatto che lei lo stesse visitando. Decise allora di lasciare perdere e finire il più in fretta possibile.
Quando uscirono dall’ambulatorio e salirono al primo piano, dove c’erano molte meno persone in giro per i corridoi, sembrò calmarsi un po’.
“Dove stiamo andando?” chiese Elliot ad un certo punto, alzando il viso per guardarla.
“A cercare gli altri due medici che si occupano di tua mamma. Bisogna avvisarli del tuo arrivo.” rispose lei, guardandosi in giro. Sembrava che nessuno prestasse molta attenzione a loro, meglio così.
“Come mai è così turbata?” chiese il ragazzino, continuando a guardarla mentre camminavano.
“Io…? Non sono turbata.” rispose confusamente Cameron.
“Quando mi ha detto che mi portava dagli altri medici sembrava preoccupata per qualcosa.” disse candidamente Elliot. Il suo tono di voce era pacato, come se volesse tranquillizzarla per qualcosa: improvvisamente si sentì come se fosse lei la bambina, in quella situazione.
Decise di essere sincera con lui: “Il dottor House ha un caratteraccio. A volte è un po’ sgarbato…ma non ti preoccupare se ti tratterà male, è un bravo medico e anche una brava persona in fondo.” le ultime parole le disse con poca convinzione.
Elliot si avvicinò di più a lei e le prese la mano, continuando camminare al suo fianco. Quei gesti infantili contrastavano con l’aria adulta che assumeva a volte: quel bambino era decisamente fuori dal comune.
Arrivarono davanti alla sala equipe: Cameron scorse Foreman e House seduti davanti alla lavagna. Quella scena le sembrò davvero insolita.
Entrò nella stanza, tenendo Elliot ancora per mano.
House si voltò e guardò perplesso l’insolita coppia.
“E’ nostro? Come vola il tempo…” disse, rivolto a Cameron “Temo però di essermi perso il divertente e fondamentale momento del suo concepimento.”
Cameron fu sollevata dalla battuta di House, temeva di aver esagerato con lui durante la conversazione di prima; fu contenta che non era cambiato niente.
“Lui è Elliot, il figlio della signorina Pivet.” disse lei.
“E ha 12 anni, quindi evitiamo di parlare di concepimento o cose simili.” aggiunse Chase, spuntando alle sue spalle.
“Oh guarda chi si vede!” lo accolse House, poi si rivolse ad Elliot con aria complice: “Chiedigli di imitarti il canguro. Lo fa benissimo, è uno spasso. Sai…ce l’ha nel sangue!”
“Ho preparato la macchina per la TAC, se ci sbrighiamo evitiamo di incontrare qualcuno.” Chase ignorò House e si rivolse al ragazzo. “Va bene, dottor Chase” rispose questi con un filo di voce.
“Ehi ehi ehi, forse è il caso che spieghiamo al ragazzo un paio di cose: zio Greg è il capo qui dentro, quindi non si esegue nessun ordine che non sia venuto dalla bocca di zio Greg, chiaro?” chiese House avvicinandosi ad Elliot.
Cameron sentì che le stringeva la mano un po’ più forte, ma la sua voce uscì limpida e sicura come sempre: “Chiaro, signore. Ma è importante che io venga visto da meno persone possibili qui dentro, o potremmo finire tutti nei guai, lei compreso. Quindi forse è il caso di fare come dice il dottor Chase, non crede?”
House si avvicinò ancora di più ad Elliot, guardandolo incuriosito. Col bastone separò la sua mano da quella di Cameron. “Credo che tu sia più furbo di quanto sembri. Questo non vuol dire che tu non sia un bravo ragazzo. Ma io tendo a fidarmi poco delle persone furbe, per principio. Quindi…si, vai a fare la TAC e ci vai col dottor Foreman. Io devo scambiare qualche parola col tuo nuovo fratello maggiore.” disse House sprezzante.
Elliot alzò lo sguardo su Chase. “Vai con Foreman.” gli disse quest’ultimo, sorridendogli per rassicurarlo.
“Se mi chiedono chi è?” chiese il neurologo ai colleghi.
“Dì pure che è mio nipote e che mi stai facendo un favore.” rispose Cameron.
“Avete già preparato un piano particolareggiato…senza di me.” borbottò House.
Foreman precedette il ragazzino fuori dalla stanza, Cameron fece per seguirli.
“No, tu e il tuo istinto materno restate qui con me.” la fermò House.

31 gennaio, h 14.30
Ufficio di Cuddy

Wilson bussò ed entrò nell’ufficio della Cuddy.
“Ciao.” disse lei, sorridendogli.
“Ciao, com’è andata col poliziotto?” si sedette.
“Insomma. Ho incontrato l’agente Dereck in corridoio, inc@zz@t0 a morte perché un certo dottor House aveva sabotato il suo colloquio con Cameron.” Wilson alzò gli occhi al soffitto. Lei continuò: “Dice di aver ottenuto tutte le informazioni che gli servivano per il suo rapporto, ma che…praticamente ci odia e se facciamo qualche altra c@zz@t@ finiremo in guai seri. Spero che House risolva in fretta il caso così da liberarci di quella donna e di tutto il suo seguito di problemi, una volta per tutte.”
“Non sei arrabbiata con House?” chiese Wilson.
“Si, molto. Ma sinceramente non ho la forza né il tempo di sostenere una conversazione con lui, adesso. Dereck mi ha chiesto una dichiarazione scritta di quello che è successo…è il caso che mi concentri su questa, sperando di migliorare le cose.” rispose la Cuddy, tornando a posare le dita sulla tastiera del computer.
Wilson la guardò pensieroso per qualche secondo. “Sicura che il tuo non volerci discutere non ha niente a che fare col fatto che oggi è saltata fuori la vostra relazione di tempo fa?” le chiese.
“No…” lei sembrò esitare. “Anche se a dirti la verità, mi ha imbarazzato un po’ quella situazione. Non avevamo mai fatto nessun accenno a quello che c’era stato tra noi. Niente di niente. Doverlo tirar fuori in quel contesto non è stato facile per me, ma era importante parlartene.” lo guardò, cercando di capire dalla sua espressione se era rimasto ferito.
“A dirti la verità non mi ha stupito sapere che ci eri stata a letto. Mi ha stupito però che entrambi non me ne abbiate mai parlato. Ma non importa Lisa, sono passati tanti anni e preferisco non pensarci.” detto questo Wilson si alzò, la Cuddy riprese a scrivere, pensando che stesse per lasciare la stanza.
In realtà si diresse alla vetrata e chiuse le persiane; poi tornò verso di lei e le prese una mano, facendola alzare.
Si baciarono con passione, le mani di lui le percorsero tutto il corpo.
La Cuddy si rese conto che poteva entrare chiunque, ma non riusciva a fermarlo.
Wilson la prendeva tantissimo; sapeva che aveva corteggiato e sedotto tante donne e questo le faceva un po’ paura ma, nello stesso tempo, l’affascinava.
D’altra parte,il modo in cui a volte era impacciato con lei, la inteneriva.
Lui la spinse dolcemente contro la parete, continuando a baciarla.
Ed un tratto sentirono aprirsi la porta.
D’istinto, si separarono e si voltarono verso di questa.
Sulla soglia c’era Foreman, che li guardava sconcertato, a fianco a lui un ragazzino con gli occhi spalancati.
Dopo pochissimi istanti in cui rimase immobile, Foreman tirò dietro di sé il ragazzo, balbettò uno “Scusate” e richiuse la porta.
Wilson e Cuddy si guardarono disorientati, poi lui non riuscì a trattenersi dal ridere. Lisa, rendendosi conto di quanto erano stati fortunati che fosse stato Foreman ad aprire quella porta, si passò le mani nei capelli scuotendo la testa.
Wilson si avvicinò ancora a lei, prendendola per la vita, ma lei lo respinse, mettendo le mani sul suo petto. “Ho già abbastanza casini, Wilson.” gli disse.
“Va bene” le disse, abbassando lo sguardo ed allontanandosi da lei.
In quel momento avrebbe voluto abbracciarlo, o dirgli quanto volentieri avrebbe chiuso quella porta a chiave e passato tutta la giornata là dentro con lui.
Ma riuscì solo a guardarlo in silenzio mentre lasciava il suo ufficio.

31 gennaio, h 14.40
Ufficio di House

“Perché hai detto quelle cose ad Elliot?” chiese Chase ad House, appena gli altri furono usciti. “E’ in un posto che non conosce, sua mamma sta morendo, è già abbastanza spaventato di suo!” fece il possibile per rimanere calmo.
House lo guardava impassibile, allora lui continuò. “Non dovevi lasciarlo andare da solo con Foreman. E’ meglio che io o Cameron restiamo con lui, gli avevo promesso che sarebbe stato così. Rischia di perdere sua madre e non ha nessun’altro. Hai idea di come si sente solo?” le ultime parole le pronunciò con particolare enfasi.
Anche Cameron notò che il coinvolgimento di Chase era eccessivo e non disse nulla, limitandosi ad osservarlo, leggermente a disagio.
“Chase, quel ragazzino vive da 12 anni in strada e parla come una persona laureata…credo non solo che ci sia qualcuno che si occupi della sua sopravvivenza, ma anche qualcuno che lo abbia educato e che gli abbia insegnato a dire alle persone quello che si vogliono farsi sentir dire.” disse House, insolitamente tranquillo.
“Sei paranoico, come fai a vedere una minaccia in un bambino di 12 anni?!” Chase incominciava a perdere la pazienza.
“Non ho detto che è una minaccia, ho detto solo che è molto furbo. Mi dispiace dirtelo, ma nonostante tu ti identifichi così tanto in Eric…”
“Elliot.” lo interruppe Cameron.
House la fulminò con lo sguardo, poi andò avanti a parlare: “…Elliot, ti assicuro che c’è una cosa di lui che ti manca considerevolmente: ed è proprio la furbizia.”
“Cosa vuoi dire?” chiese Chase, confuso.
“E’ vero che quel ragazzo si fida ciecamente di te e il motivo è uno solo: ha capito che lo difenderai a qualunque costo, così come difenderesti un fratello o un figlio, o come difenderesti te stesso…” House si voltò verso Cameron: “Forza psic, tu adori queste cose, non dirmi che non hai avuto la mia stessa impressione.”
“Non so se è il caso…è una cosa delicata.” disse lei, titubante.
“Appunto, e se non lo dici tu con la tua delicatezza, lo dico io…” rispose lui.
“Ok, ok.” disse subito Cameron “Chase…” lui si voltò verso la dottoressa, con sguardo interrogativo. “…forse la storia di Elliot ti ricorda un po’ la tua. Insomma, anche tu ti sei trovato con tua mamma che stava morendo quand’eri giovanissimo, e tuo papà era ormai lontano. Magari senti la sua sofferenza come tua, ti senti l’unica persona che può capirlo…” disse Cameron, cercando di mettere più tatto possibile nelle sue parole.
“Mi credete così stupido? So benissimo di ritrovarmi in alcuni aspetti della storia di Elliot, ma questo non vuol dire che non sia obiettivo! Questo quadretto è veramente patetico.” rispose Chase, indignato.
“Lo so. E immaginavo anche che fossi cosciente delle tue proiezioni, identificazioni o quel che è. Però ero curioso di vedere la scenetta che veniva fuori tra te e Cameron in questo quadretto tragico. La crocerossina non si smentisce mai…ci mancavano solo l’abbraccio e il grattino in testa” disse, arrogante, House.
“Sei un bastardo.” constatò Chase, ma senza aggressività. Ormai si era rassegnato alle provocazioni del suo capo, aveva capito che facevano più male a House stesso che a lui.
Si scambiò uno sguardo rapido con Cameron, che sembrava stesse per scoppiare: Chase sperò che si trattasse di uno scoppio d’ira e non di pianto. Non voleva che lei mostrasse le sue debolezze davanti al suo capo, sapeva che se ne sarebbe poi vergognata a lungo.
“Raggiungo Foreman.” disse, lasciando la stanza.
House nemmeno se ne accorse, impegnato com’era ad osservare le espressioni che si susseguivano sul volto di Cameron. C’era stata la sorpresa, poi un lampo di tristezza, poi la frustrazione e poi la rabbia, più forte di tutti i sentimenti precedenti. Aveva le lacrime agli occhi, lacrime d’ira però, la sofferenza era ormai sepolta sotto uno spesso strato di rancore. Così come quel che di positivo avesse mai provato per lui.
Per la prima volta si rese pienamente conto di come, attivamente, combatteva contro i sentimenti buoni che le persone provavano per lui, per paura di ricambiarli e di rimanere poi deluso.
Cameron era il suo opposto: lei continuava a crederci, e continuava a rimanere ferita. Ma non rinunciava.
Tranne forse che con lui; sentì che questa volta era riuscito a convincere anche Cameron che con lui non c’era niente da fare. Invece di provare un senso di vittoria, si sentì solo triste. Si era fatto del male di nuovo; questa non poteva essere una vittoria, ma solo l’ennesima sconfitta.
Si voltò dandole le spalle, pronto a respingere in modo sprezzante i suoi tentativi di manifestargli la sua rabbia o a vederla andare via senza dire una parola.
Cameron ebbe la forte tentazione di prendere a pugni quella schiena, di urlargli in faccia quanto male stesse facendo a lei, e a se stesso.
Già…anche a se stesso. Cercò di ragionare un minuto: le sue dimostrazioni d’ira verso House non avevano mai portato a nulla, non aveva senso fare una scenata.
Fece due grossi respiri per calmarsi, poi si avvicinò a lui.
Gli posò una mano sul collo e la fece scorrere lungo la sua spina dorsale, fino a fermarla sulla parte bassa della schiena. Sentì che questa volta era lui a rabbrividire; questo le diede un po’ di sicurezza.
House si voltò e la guardò qualche secondo, disorientato. Poi le sorrise malizioso: “Devi avermi a qualunque costo, vero Cameron?”
“Già.” si limitò a dire lei, ricambiando il sorriso.
“Sei disposta a mettere a tacere la tua dignità per questo?” la provocò lui.
“Non sto mettendo a tacere la mia dignità. Sto mettendo a tacere le parole, quelle che sento da te e quelle che mi viene voglia di dirti.” non smise di sorridergli, la mano sempre appoggiata sulla sua schiena.
“Cosa c’è di più importante delle parole?” gli chiese lui. Se ne accorse però mentre faceva quell’inutile domanda. In quel momento le loro bocche dicevano qualcosa e i loro corpi si comunicavano tutt’altro. Probabilmente era sempre stato così.
Aveva in mente tante frasi taglienti con cui allontanarla definitivamente, ma la sua bocca si rifiutava di aprirsi.
Fece passare un braccio dietro le sue spalle e l’attirò a sé.
Non smisero di guardarsi mentre si avvicinavano l’uno all’altro e, entrambi col cuore che scoppiava d’emozioni indefinite, si baciarono.
 
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°vally°
view post Posted on 25/12/2006, 23:11




CAPITOLO 11
31 gennaio, h 14.45
Ufficio di House

Nei primi attimi, in cui le loro labbra si sfiorarono, non smise di guardarla negli occhi. Voleva essere sicuro di non vedere in lei compassione, o sensi di colpa. Ci vide qualcosa di completamente diverso, e di intenso. Dal modo in cui Cameron lo tirava verso di sé, decise che poteva essere desiderio. In realtà sapeva benissimo che non era solo quello, e questa prospettiva per la prima volta non lo spaventò, ma lo rese un po’ felice. Solo un po’.
Sapeva che non sarebbe durato a lungo, sapeva che il suo masochismo lo avrebbe portato a farsi ancora del male. Sentiva già i primi dubbi attanagliargli il cervello…
La prese per le spalle e la allontanò.
“Cosa c’è?” disse lei, disorientata.
“Non mi sembra un a buona idea.” disse guardandosi in giro.
“Non ti sembra una buona idea qui o non ti sembra una buona idea e basta?” chiese lei, con pacatezza, come se parlasse a un bambino.
Questo incominciò ad irritarlo; l’averla così vicina lo metteva a disagio.
Fece un passo indietro, cercando di posare il suo sguardo su qualunque cosa tranne che sul suo viso, sul suo corpo.
“Perché non mi guardi?” chiese lei.
“Perché non so se saprei trattenermi dal saltarti addosso.” rispose lui.
Cameron abbassò lo sguardo, imbarazzata.
“Ti piacerebbe, vero?” continuò House, sarcastico.
Sentiva di aver recuperato quella supremazia che cercava di mantenere sempre su di lei, e su quasi tutti.
Tranne Wilson, forse.
Metterla in soggezione era l’unico modo per non sentirsi minacciato da lei.
“House…” disse l’immunologa esasperata, e si lasciò cadere su una delle sedie poste davanti alla lavagna.
“Non combatti neanche un po’?!” la stuzzicò lui “Forza, dimostra quanto ci tieni a me, che sei disposta a tutto per avermi!”
“Credi davvero sia così?” le chiese lei a bruciapelo.
Questa domanda lo disorientò; non riuscì a trovare una risposta pronta e tagliente da rifilarle e Cameron approfittò del suo silenzio: “Sei stato tu a baciarmi adesso.” precisò.
“Quindi non credi che ci sia bisogno di combattere?” le chiese House.
“Credo solo che non c’è fretta, che col tempo riuscirai a fidarti di me.” la sicurezza di questa affermazione colpì lei stessa, tanto quanto House.
“Illusa…” la schernì lui.
Prese la cartella della Pivet dal tavolo e gliela lanciò. “Smetti di pensare a tutte quelle sconcezze sul mio conto e renditi utile. Se non ti viene in mente niente, trova almeno la mia tazza. Potrei ricompensarti con qualcosa che ti piace…” si avvicinò alla porta.
Lei lo guardò con un’espressione sconcertata.
“Parlavo dell’ambulatorio…” disse lui, canzonatorio. “Se trovi la tazza, ti abbono un turno.”
“E se trovo la diagnosi?” chiese lei.
“Bhè in quel caso…no, direi che è impossibile.” si voltò e sparì nel corridoio.

31 gennaio, h 15.00
Stanza macchinario TAC

Chase raggiunse Foreman ed Elliot.
Il neurologo aveva già preparato il ragazzino, e stava per far partire l’apparecchiatura.
Chase gli fece cenno di fermarsi e si avvicinò ad Elliot. “Sei pronto?” gli chiese.
“Si.” rispose lui.
“Forse Foreman te l’ha già detto, comunque volevo assicurarti che non sentirai nulla, questo esame è completamente indolore.” gli disse Chase.
“Grazie. E’ andato tutto bene col suo capo?” chiese Elliot al medico.
Lui annuì. “Stai tranquillo, è tutto a posto.” rispose.
Chase raggiunse Foreman, che fece partire il macchinario.
“E’ un ragazzino coraggioso.” disse al neurologo. “Che ne pensi?”
Foreman non rispose, era assorto nei suoi pensieri.
“Ehi, Foreman! Tutto bene?” gli chiese Chase, toccandogli un braccio per attirare la sua attenzione.
Il neurologo trasalì e si voltò verso il collega.“Si…scusa.”
“Perché così pensieroso?” chiese Chase.
Foreman rise sommessamente, scuotendo la testa. “E’ che…ho visto una cosa, pochi minuti fa.”
“Cosa hai visto?” chiese Chase, incuriosito.
“Ho visto Wilson e Cuddy che si scambiavano effusioni appoggiati alla parete dell’ufficio di lei.”
“In che senso si scambiavano effusioni? Stavano…” Chase fece gesto a Foreman di completare la sua frase.
“Si stavano baciando. Ma credo che se fossi arrivato qualche minuto dopo avrei trovato i loro vestiti sparsi sul pavimento.” disse lui, sorridendo malizioso.
“Oh mio dio…Wilson e la Cuddy?! Questa non me l’aspettavo proprio…” disse Chase, sbalordito.
“Neanch’io. Infatti ci ho messo qualche secondo a reagire, spero che il ragazzo non sia rimasto impressionato.”
“Elliot? Che stavi andando a fare con Elliot nell’ufficio della Cuddy?” chiese sospettoso all’amico.
“Secondo te? Credi che possiamo fare esami su esami a un vagabondo minorenne senza avvisare Cuddy? Hai idea di cosa ci fa quella donna se ci scopre? Noi non abbiamo il fascino di House. Se ci va bene ci sospende, se ci va male ci troviamo in mezzo alla strada.” rispose Foreman, serio.
“E’ solo una TAC! Vuoi denunciarlo? Vuoi che finisca in un istituto?” Chase era indignato dalle parole del neurologo.
“No. Voglio solo avvisare la Cuddy. Se le spieghiamo come sta la situazione ci lascerà un po’ di tempo prima di avvisare la polizia. Avrei trattato. Funziona.” Foreman sembrava sicuro di quello che stava dicendo.
“Dovevi prima parlarne con me, ho io la responsabilità di quel ragazzino.”
“L’unica responsabilità ce l’ha sua madre, Chase. Gli hai promesso che non andrà in istituto e faremo in modo che non succeda. Ma tu credi veramente che trovare un tetto sotto cui dormire, e magari una famiglia, non gli farebbe bene?” Foreman lo guardò negli occhi, finché Chase non resse più lo sguardo e abbassò i suoi.
“Non lo so.” disse, abbattuto.
“Ne parleremo con Cuddy, è meglio per tutti.” disse Foreman, ricominciando a studiare le immagini sullo schermo.
“Ehi, cos’è che andate a dire alla mamma, senza il mio permesso?!” House spuntò alle loro spalle.
“La mamma ti tradisce, House…” lo schernì Chase.
“Già, e con il tuo migliore amico!” rincarò la dose Foreman.
“Quegli idioti si sono già fatti beccare?” chiese House, facendo gesto a Foreman di lasciargli il suo posto davanti al computer.
“Sapevi che avevano una relazione?” chiese Chase, meravigliato, mentre si spostava per lasciar appoggiare il neurologo al suo sgabello.
“Si, ho detto a Wilson che gliela cedevo per un po’, mentre io mi davo all’incesto…” guardò malizioso Chase, e vedendo che non accoglieva la provocazione continuò “Io sono generoso: se conosco una donna bella e brava a letto, la passo volentieri agli amici, senza fare tante storie.” dopo aver dato una breve occhiata al monitor, si voltò ancora verso Chase.
“Sei stato veramente a letto con la Cuddy?!” chiese Foreman, sconcertato.
“Credete che vi abbia portato la cicogna?” ironizzò House, poi si voltò nuovamente verso lo schermo. “Qui non c’è niente. La paralisi viene dal cervello. Il ragazzo ti ha parlato di spasmi o tremori avuti in passato?” chiese rivolto a Chase.
“No, mi ha detto solo che è paralizzato da quando era molto piccolo. Non si ricorda com’è successo.”
“Peccato…Facciamo una risonanza magnetica al cervello, anche se temo sarà inutile.” disse House.
“Dici che ha lo stesso disturbo della madre?” gli chiese Foreman.
“Si, quindi non troveremo nulla che spiega la paralisi.”
“E allora perché vuoi fare lo stesso la risonanza?” domandò Chase.
“Perché magari troveremo, per coincidenza, una macchia nel suo lobo temporale, come nella madre. Sempre per coincidenza ovviamente!” disse, rivolto a Foreman.
“Sei ancora convinto che quella lesione all’area di Broca c’entri qualcosa con i disturbi motori?!” chiese, esasperato, il neurologo al suo capo.
“Già. Facciamo così: se non troviamo la lesione, io lascio perdere la mia ipotesi e ti tolgo anche un turno di ambulatorio. Se però la troviamo, mi sostituisci per tutta la settimana.” disse House, porgendo la mano a Foreman.
“Non mi sembra uno scambio tanto equo, comunque…” affermò, stringendo la mano al suo capo “…sono assolutamente convinto che non troveremo niente nel lobo temporale, quindi accetto.”
“Fantastico…” disse House, voltando le spalle ai colleghi.
“Ora lasciate quel bambino in un posto dove non può vederlo nessuno, e raggiungetemi in sala equipe. E che nessuno apra bocca con la Cuddy, aspettiamo che passi ancora un po’ di tempo con Wilson, vi assicurò che diventerà più malleabile e ne trarremo tutti vantaggio.” continuò, mentre si avviava lungo il corridoio.
“E’ veramente str0nz0!” disse Foreman, rivolto a Chase, che osservava il suo capo allontanarsi. “Credi sia stato a letto con la Cuddy?” gli domandò il neurologo.
“Naaa” disse Chase, “Parla tanto ma poi…” scosse la testa e andò a prendere Elliot.
Foreman non ne era così certo, ma preferì lasciare il collega in balia delle sue convinzioni.

31 gennaio, h 15.15
Camera della signorina Pivet

La paziente giaceva in dormiveglia sul suo letto. Le avevano dato dei sedativi per permetterle di riposare, ma la violenza degli spasmi e dei tremori le impediva di addormentarsi.
In più ora c’era anche quel giramento di testa costante; le bastava chiudere gli occhi per non capire più se era sdraiata, in piedi o a testa in giù.
Aveva paura ma non smetteva di sperare.
Sentiva che Elliot le era vicina, sapeva che avrebbe cercato un modo di avvicinarla.
Questo la faceva felice ma la spaventava allo stesso tempo: quello era un luogo ostile e sconosciuto al suo bambino. Sapeva che lui non avrebbe avuto paura, ma temeva che qualcosa andasse storto.
C’era la polizia, lei era in arresto.
Cercò di non pensare a queste cose e di concentrarsi.
Doveva pregare con tutte le sue forze la Dea Madre di aiutare Elliot a raggiungerla, e a salvarla. Quel mal di testa le impediva di sentire la voce del suo bambino che percepiva di tanto in tanto, nella testa.
Incominciò a respirare più in fretta, sperando che in questo modo le sarebbe arrivato più ossigeno al cervello e sarebbe riuscita a concentrarsi.
Ad un certo punto spalancò gli occhi e la bocca. Non respirava più.
Le macchine al suo fianco incominciarono a fare un suono che non aveva mai sentito, che la terrorizzò.
Questo profondo terrore fu l’ultima cosa che provò prima di perdere conoscenza.

31 gennaio, h 15.15
Ufficio di House

Tutti e quattro i medici si riunirono nella sala equipe; Elliot sedeva per terra, nascosto dietro la scrivania di House, e leggeva un libro.
“Quando ti ho detto di lasciarlo da qualche parte dove non può vederlo nessuno, intendevo in bagno o in qualche sgabuzzino, non nel mio ufficio.” protestò House, rivolto a Chase.
“Così possiamo tenerlo d’occhio, vista la sua furbizia non possiamo rischiare di lasciarlo in giro da solo per l’ospedale. Potrebbe uccidere un infermiere, rubargli i vestiti ed entrare nella camera della madre eludendo la sorveglianza, non credi?” lo canzonò questi di rimando.
House lo fulminò con lo sguardo e si voltò verso Foreman. “La risonanza?”
“Ora la macchina è occupata, tra mezz’ora, un’ora al massimo, si potrà fare.” rispose.
“Cameron, tu hai concluso qualcosa durante la nostra assenza, oltre a crogiolarti nei tuoi sogni erotici?” le chiese il suo capo.
“Si House…Questa macchia nel lobo temporale…” attaccò la lastra alla lampada apposita.
House gettò uno sguardo provocatorio a Foreman.
“…credo che possa avere a che fare col disturbo.” disse la dottoressa. “Questo tessuto cicatrizzato, oltre ad essere una lesione, è una massa compatta che avrebbe potuto nascondere qualcosa…”
“Credi che ci sia un tumore?” le domandò Chase.
“No, credo che ci sia qualcosa che possa essere cresciuto lì indisturbato e poi possa essersi diffuso in altre zone del cervello, o nel cervelletto.” concluse Cameron.
“E hai idea di cosa possa essere questo qualcosa oppure è un’ipotesi scaturita dalle tue fantasie infantili, mentre quelle adulte erano impegnate a pensare ad altro…?” le chiese House guardandola incuriosito. Lei stava per ribattere ma lui le fece gesto di stare in silenzio, riflettendo.
“Intendevi dire che ci può essere un parassita, ad esempio, che può essere cresciuto lungo la lesione al lobo temporale per poi diffondersi e…” le disse, soprappensiero.
“…e provocare tutti quei danni. Si, pensavo a qualcosa del genere. Solo che non mi risultano esserci parassiti che si possano muovere così in fretta.” asserì Cameron.
“Abbiamo fatto un sacco di esami, se c’erano tracce di un parassita ce ne saremmo accorti.” tentò di replicare Foreman.
“Si, di un parassita qualunque, ma non di uno che agisce così in fretta. Magari un animaletto insolito che non siamo abituati a trovare nel cervello della gente.” disse House.
“Mi sembra un’ipotesi un po’ azzardata…” tentò di ribattere Chase.
“Lo è. Ma è l’unica a sembrare almeno lontanamente probabile. L’unica luce in fondo al tunnel che abbiamo.” disse House, togliendo la lastra dalla lampada.
“Quindi cosa facciamo? Come si fa a trovare un parassita sconosciuto nel vasto cervello di una donna adulta?” chiese Foreman, scettico.
“Per adesso non facciamo niente. Abbiamo aspettato fino ad ora e la paziente non sembra in imminente pericolo di vita. Vediamo prima il risultato della risonanza del ragazzo.” ordinò House, indicando Elliot con un gesto della testa.
Il ragazzino continuava a leggere, apparentemente tranquillo.
Ad un certo punto i quattro cercapersone incominciarono a suonare contemporaneamente.
“La Pivet.” disse Cameron, prendendo il suo.
“Muoviamoci.” esclamò Foreman, dirigendosi verso la porta.
Chase sembrò esitare. “Elliot?”
“Resto io con lui.” disse House.
Chase continuò a non muoversi, indeciso se fidarsi o meno.
“Andiamo Chase, starà bene, non è un mostro.” gli disse Cameron, tirandolo leggermente per un braccio.
“Sei veramente un tesoro…” sussurrò House tra sé e sé, sarcastico.
Chase esitò ancora qualche secondo ma poi seguì i colleghi, lanciando un rapido cenno al ragazzino.
Il diagnosta si voltò verso Elliot che, lasciato cadere il libro tra i piedi, lo fissava con un sorriso che inquietò anche l’imperturbabile House.



 
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°vally°
view post Posted on 30/12/2006, 14:12




CAPITOLO 12

31 gannaio, h 15.30
Ufficio di House

House raggiunse il ragazzino nel suo ufficio, e gli fece gesto di alzarsi.
Lui ubbidì, tenendo con un braccio il libro, l’altro ciondolante al lato del corpo.
Si avvicinò e lo afferrò per il braccio paralizzato.
Elliot sembrò trasalire, ma lo lasciò fare senza protestare.
House gli sollevò il braccio e poi lo lasciò cadere; fece così alcune volte.
“Cosa sta facendo, dottore?” chiese ad un certo punto Elliot.
“Ti sto distraendo in modo che tu non mi chieda dove sono corsi Chase e gli altri.” gli rispose, sedendosi e trovandosi così alla stessa altezza del ragazzino. “Perché dovrei risponderti che tua madre ha avuto un arresto respiratorio, e questa è una bruttissima cosa. Tu ti metteresti a piangere, e io mi irriterei e ti porterei dalla crudele zia Cuddy per farti spedire in qualche orfanotrofio.”
Elliot lo guardava serio. “So che mia mamma sta molto male, dottor House. E so che non morirà. I suoi medici la faranno respirare, adesso è già fuori pericolo.”
In quel momento Foreman si affacciò alla porta “Arresto respiratorio, i polmoni sono paralizzati. L’abbiamo intubata ma…” si fermò, incontrando lo sguardo del ragazzino.
“…ma non potrà durare così a lungo. Si, lo so. Dillo pure davanti ad Elliot, tanto è una roccia.” concluse House, tirando una pacca sulla spalla del ragazzo, talmente forte che gli fece perdere l’equilibrio.
“Stai attento, è un bambino!” lo ammonì Foreman.
“Siete una massa di ingenui…” disse House tra sé e sé.
“Io vado a preparare la macchina per la risonanza. Tra poco ti vengo a prendere, Elliot.” Il ragazzino annuì rivolto al neurologo. “Nel frattempo…cercate di nascondervi. Se vi vede Cuddy dovremo raccontarle qualcosa.”
Foreman se ne andò e House si alzò dalla sedia.
“Vieni” disse al ragazzo, prendendo il giaccone di Foreman e gettandoglielo addosso. “metti questo.”
Uscirono sul balconcino, chiudendosi la porta alle spalle.
Aveva ricominciato a nevicare e il freddo era pungente: difficilmente qualcuno si sarebbe avventurato là fuori.
“Ora ti aspetteresti che io ti chiedessi come mai sapevi che tua mamma era ormai fuori pericolo…” disse House al ragazzo “…ma non te lo chiedo, perché ce l’ho già una risposta. Tu sei cresciuto in mezzo alla strada, quindi per sopravvivere probabilmente avrai dovuto rubare, oppure chiedere l’elemosina o roba simile. Sei molto sveglio, e soprattutto furbo. Hai anche una capacità che ho anch’io; quella di osservare molto bene la gente e capire quindi tante cose. Poi sei colto. Non sei un barbone qualunque insomma…sei un barbone intelligente, Elliot.”
“E’ la seconda volta che mi chiama per nome, dottore. Lei non ricorda mai i nomi dei pazienti.” replicò Elliot “Questo significa o che si è particolarmente affezionato a me, oppure che io la spavento. Non credo che si tratti della prima motivazione.”
“Tu non mi spaventi, piccolo mostro presuntuoso. Il tuo nome me lo ricordo perché è quello del bambino che si era portato a casa ET, e tu me lo ricordi. Non il bambino, l’alieno.” disse House, fingendosi offeso.
“Forse non la spavento io, ma la spaventa il modo in cui i suoi colleghi mi guardano. Soprattutto il dottor Chase.” insistette il ragazzo. “Ha paura che io possa manipolarli, vede in me una minaccia.”
Le ultime parole di Elliot erano vere. House temeva che quel ragazzino, se avesse voluto, avrebbe potuto raggirare Chase e Cameron come voleva. Foreman forse no, ma non ne era così certo.
“Anche se fosse vero, tu non sei una minaccia per me. Ti tengo d’occhio ragazzino, ogni tua mossa sarà sotto il mio controllo.” gli disse House, ostile.
“Io voglio solo vedere mia madre, dottor House.” rispose Elliot quietamente, guardandolo negli occhi.
L’aria innocente che aveva il ragazzo in questo momento suggerì ad House il fatto che forse non era così pericoloso come sembrava. Pochi istanti dopo si rese però conto che quell’immagine di bambino indifeso era quella che vedevano i suoi medici, quella che faceva abbassare la guardia.
Lui non voleva farlo.
C’era la possibilità che quel ragazzino fosse innocuo, solo molto suggestionante.
Ma il suo istinto gli diceva che non era solo quello.
“Hai freddo?” gli chiese, burbero.
“No dottore.”
“Bene. Resta qui finché non viene Foreman a prenderti, io ho delle cose da fare.”
Detto questo rientrò nel suo ufficio, chiudendosi la porta alle spalle e lasciando Elliot sotto la neve.

31 gennaio, h 15.40
Princeton Plaisboro Teaching Hospital

Foreman stava camminando nel lungo corridoio che portava alle sale coi macchinari.
Sentì dei passi veloci e decisi provenire da dietro di lui e si voltò quando lo raggiunsero.
“Ciao Foreman.”
“Ciao Cuddy.”
Il neurologo non poté fare a meno di sorridere, ma lei tentò di ignorare la sua espressione.
“Avevi bisogno di qualcosa…prima, quando sei passato…” la Cuddy era molto imbarazzata, ma cercava di nasconderlo usando il suo solito tono di voce autoritario.
Foreman fu preso alla sprovvista; aveva dimenticato che Cuddy probabilmente aveva visto Elliot.
Decise comunque di mentire, ormai riteneva anche lui indispensabile fare quegli esami al ragazzo, e la responsabilità di quello che stava accadendo sarebbe comunque ricaduta su House.
“No, niente di importante…” disse.
“C’era un bambino con te.” replicò lei.
“Si…l’avevo trovato lì nei paraggi, si era perso. Visto che non c’era nessuna infermiera disponibile avevo pensato che potesse essere qualcuno che tu conoscevi.” fu la prima cosa che gli venne in mente ed era una pessima scusa, ma la Cuddy era troppo presa da altri pensieri per far caso al fatto che lui stava mentendo spudoratamente.
“Ah…no, non l’ho mai visto.” rispose lei, confusa.
“Si, ma non ti preoccupare. L’ho affidato a un’infermiera, sicuramente avranno trovato i suoi genitori.” disse lui, poco convinto.
“Bene.” asserì lei, sorridendo mentre si tormentava le mani.
Anche Foreman sorrise, ma entrambi restarono immobili, uno di fronte all’altra.
“Comunque, per quello che hai visto...” disse ad un tratto Cuddy, prendendo coraggio, ma senza riuscire a terminare la frase.
“Non ti preoccupare, è colpa mia, dovevo bussare.”
“Si, quello sicuramente.” rispose lei, con tono severo. “Però…” la sua voce tornò ad essere esitante “..vorrei che non ne parlassi con nessuno, per favore.”
Il silenzio di Foreman fece capire alla Cuddy che era troppo tardi…
“E’ che House lo sapeva già.” disse Foreman, cercando di scaricare la colpa.
La Cuddy alzò gli occhi al cielo.
“Va bene, almeno fate in modo che non lo sappia nessuno al di fuori della vostra equipe, chiaro?” la fermezza della sua domanda fece pentire Foreman di averle mentito riguardo al bambino. Se gli avesse scoperti sarebbero finiti nei guai.
“Certo, sono affari vostri, ci mancherebbe.” rispose al suo capo.
Cuddy sembrò tranquillizzarsi. “A dopo.” mormorò e, fatto dietro front, tornò sui suoi passi.

31 gennaio, h 15.45
Ufficio di House

Foreman preparò la macchina e andò a prendere Elliot.
House l’aveva lasciato sul balcone, sotto la neve, mentre lui si era rimesso a studiare attentamente la lavagna.
“Ma sei impazzito?!” gli disse, aprendo la porta del balcone per far rientrare il ragazzo.
“Non si preoccupi dottor Foreman, gli ho detto io che poteva lasciarmi qui. Grazie al suo giubbotto non ho sofferto il freddo.” Elliot passò il giaccone a Foreman, sorridendogli.
“Visto? Non farei mai del male a qualcuno senza il suo consenso. Lui me l’ha dato il consenso…” disse House, compiaciuto.
Foreman preferì evitare di dire qualunque altra cosa e, fatto cenno al ragazzo di seguirlo, andò a fargli la risonanza.

Dopo pochi minuti Wilson entrò nel suo ufficio.
“House.” toccò una spalla all’amico.
Questi sobbalzò, preso alla sprovvista.
“Ti eri addormentato?!” chiese Wilson.
“No...” rispose House, assonnato. “E’ che faccio fatica a concentrarmi.”
“Come mai?” Wilson prese una sedia e si mise tra lui e la lavagna.
“Vuoi anche farmi sdraiare su un lettino?” chiese House ironico, alzandosi per preparare il caffè.
Wilson lo seguì con lo sguardo. “Foreman ha visto me e Lisa che ci baciavamo.”
“Si lo so. Siete due idioti.” rispose House.
“Hai solo questo da dirmi?”
“No, ma al momento è l’unico pensiero che mi passa per la testa.”
“Grazie, se non avessi un amico come te, non so come farei.” Wilson scosse la testa, prendendo la tazza di caffè che House gli stava passando.
Quest’ultimo tornò a sedersi di fronte a lui.
“Quella non è la tua tazza.” disse Wilson, notando l’oggetto a cui House stava portando le labbra.
“La mia tazza è scomparsa. Aspetto 24 ore prima di dare l’allarme ufficiale. Cameron comunque si sta già dando da fare nelle ricerche. Con quello che le ho promesso...” rispose il diagnosta, facendo un sorso di caffè.
“Stai bevendo dalla tazza di Cameron.” osservò Wilson.
“Già, non so perché ma l’idea di appoggiare le labbra dove hanno appena fatto lo stesso Foreman o Chase mi fa un po’ senso. A te no, a quanto vedo.”
Wilson guardò la sua tazza poi fece spallucce. “E’ solo una tazza.” disse, incominciando a bere.
Finirono in silenzio il loro caffè.
“L’idea di appoggiare le labbra dove l’ha fatto Cameron vedo che però non ti dispiace.” lo provocò Wilson.
“E’ successo ancora.” disse House, pensieroso.
“Cosa?” chiese l’oncologo.
“Ci siamo baciati. Anzi precisiamo, come ha fatto lei: io l’ho baciata.” disse House, appoggiando la tazza sul tavolo.
“Qui?” chiese incredulo Wilson.
“Si, ma non era in programma. Mi ha preso alla sprovvista.” vedendo che Wilson non diceva niente andò avanti “Le avevo detto qualcosa di cattivo, per farla arrabbiare. Lei invece di inc@zz@rsi o andarsene si è avvicinata e mi ha abbracciato. E’ una ruffiana…non me l’aspettavo, me la sono trovata addosso…” House sembrava confuso.
Wilson sorrise. “Brava Cameron.” disse tra sé e sé.
“Cos’hai detto?” gli chiese House, sporgendosi verso di lui.
“Niente, lascia stare. Bhè, cos’hai intenzione di fare?” chiese all’amico.
“E’ strana…dici che dovrei licenziarla?”
“Cosa?! Se ti limitassi ad invitarla ad uscire?” tentò Wilson.
“No…Siamo già usciti insieme , è andata male. Poi probabilmente rifiuterebbe.”
“Stai scherzando?! Non era pazza di te?”
“Lo è. Però…è cambiato qualcosa: si comporta in modo incoerente.” House sembrò riflettere qualche secondo; Wilson preferì non interromperlo.
Passarono alcuni minuti, in cui l’oncologo rispettò il silenzio dell’amico.
“House? Posso chiederti una cosa?” gli chiese poi.
“Basta che non si tratti di un altro prestito!” replicò House.
“Com’è andata tra te e Lisa? Cioè…com’è che siete finiti a letto assieme?” chiese Wilson ignorando la sua battuta.
“Sei masochista.” asserì il diagnosta.
“Si, ma rispondi per favore.”
“Qualche sera dopo che Stacy se n’è andata, sono andato a casa della Cuddy. Sapevo che avevano parlato, e volevo sapere cosa si erano dette. Lei non voleva neanche farmi entrare…”
Wilson gli fece cenno di andare avanti.
“Insomma…una parola tira l’altra. Un bicchiere di vino tira uno di rum…”
“Eravate ubriachi?” chiese Wilson, perplesso.
“Già, la prima volta si. Questo ti solleva?” gli domandò House, di rimando.
“A dirti la verità si… Ma non è per questo che ti ho chiesto com’era andata.”
“E perché allora?” gli chiese House.
“Perché magari potresti andare a trovare Cameron una sera di questa. Con una scusa qualunque…so che non ti sarebbe difficile trovarla.” consigliò Wilson all’amico.
“Mi stai spingendo spudoratamente tra le sue braccia! Ma da che parte stai?”
“Non è una guerra House. Se lo fosse, comunque, starei dalla tua parte.” gli disse Wilson, alzandosi e posandogli una mano sulla spalla.
“Buttati. Se poi ti fai male, ci sono io.” continuò.
“O la Cuddy…” ribatté House, malizioso.
“So che non lo faresti.” disse l’oncologo, con sicurezza.
“Io non ne sarei tanto sicuro…” insistette House.
“Io si.” Wilson posò la tazza accanto a quella di Cameron, e lasciò la stanza.

31 gennaio, h 16.00
Camera della signorina Pivet

La paziente era stata intubata, il suo torace si alzava e si abbassava, con ritmo regolare.
Cameron era seduta accanto a lei, e osservava attentamente il monitor che indicava il suo battito cardiaco e la pressione.
Chase era ai piedi del letto, e guardava le due donne.
“Cameron” disse alla collega “Non credi che Elliot le assomigli davvero tanto.”
La dottoressa posò lo sguardo sulla Pivet. “Si. Se qualcuno vedesse il ragazzino, lo collegherebbe facilmente a lei. Chase…scusa per prima, non volevo offenderti.”
“Non ti preoccupare. Dal primo momento che hai visto me ed Elliot assieme, ti è venuta in mente la storia della mia infanzia. Hai fatto bene a dirmelo: è brutto quando so cosa sta passando nella testa delle persone, ma tutto viene taciuto e non se ne può parlare.”
Cameron lo guardò perplessa: non aveva mai sentito parlare così il suo collega.
“Ti trovo strano oggi. Quel ragazzino sembra ti abbia scioccato parecchio.” Cameron decise di non nascondergli quello che pensava.
“Lo ha fatto.” rispose Chase, assorto. “House si è accorto che la sua tazza è sparita?” chiese improvvisamente, cambiando discorso.
“Si. Ha ordinato anche a te di cercargliela?” gli chiese Cameron, divertita.
“No. Però so che fine ha fatto.” Chase non poté fare a meno di sorridere.
Cameron gli rivolse uno sguardo interrogativo.
“Ieri sera mi ha fatto veramente inc@zz@re…ho preso la sua tazza e l’ho lanciato contro il muro. E’ andata in mille pezzi.” confessò Chase.
Cameron continuò a guardarlo senza parlare, ora sbalordita.
“E’ solo una stupida tazza. Io ho perso tante cose davanti a lui: la mia dignità, il mio onore…cosa vuoi che sia, in confronto, quell’inutile oggetto?” le domandò lui.
“Capisco cosa intendi dire.” rispose lei, soprappensiero. “Credo però di aver capito che non è così: a te sembra di star sacrificando la tua dignità, ma in realtà è solo quello che lui ti fa credere. In ogni sua battuta tagliente, c’è un lato nascosto, difficile da vedere…” tentò di spiegare Cameron “Ad esempio ti prende spesso in giro per le ipotesi fantasiose che tiri fuori mentre cerchiamo di fare una diagnosi…però non le scarta mai senza ragionarci su. Insomma: ti considera, ti stima…è che non è in grado di ammetterlo neanche a se stesso.”
“Molto fantasiosa come teoria…” disse Chase, mettendosi dietro di lei e appoggiandole entrambe le mani sulle spalle. “Per lo stesso motivo, ad esempio, potrebbe allontanare una bella donna, ma solo dopo averle dedicato un sacco di battutine pungenti. Così le dimostrerebbe che le piace, ma che non lo vuole ammettere a se stesso..” Chase abbracciò la collega da dietro. Cameron percepì una certa tenerezza in quel gesto.
“Allison, sei innamorata di lui, lo sei sempre stata.” le disse, senza smettere di tenerla stretta.
Lei sorrise, appoggiando le mani sulle sue.
“Non sono sicura sia questo Chase, ma ho bisogno di stargli vicino per capire.” si voltò per guardarlo negli occhi. “Tu mi piaci molto, davvero. Ma è un’altra cosa….”
“Lo so, dottoressa Cameron.” le rispose, sciogliendo l’abbraccio a sedendosi di fronte a lei, sul letto della Pivet. “Mi va bene così. Mi sono tolto lo sfizio di venire a letto con te e ora…mi accontento del nostro rapporto professionale.”
“E della mia amicizia.” aggiunse lei, sorridendogli.
“Certo, e della tua amicizia.” rispose al suo sorriso.
I loro cercapersone suonarono, per la seconda volta in pochi minuti.
“Torniamo alla base.” disse Chase, rivolto alla collega.
Entrambi lasciarono rapidamente la stanza.

31 gennaio, h 16.15
Ufficio di House
“Foreman ci porta buone nuove!” gli accolse House, mostrando loro il risultato della risonanza magnetica. “Guardate un po’ qui.” Indicò una macchia sulla lastra.
“Chase, Cameron, salutate il vostro fratellone! Foreman passerà molti dei suoi prossimi giorni al piano di sotto!”



CAPITOLO 13

31 gennaio, h 16.20
Ufficio di House

“Stessa macchia, stesso posto!” esclamò House, vittorioso. “Ho vinto la scommessa!”
Foreman scosse la testa rassegnato, osservando la lastra.
“L’elenco dei miei turni della settimana è sulla scrivania, prego.” House indicò al neurologo una pila di scartoffie.
“Va bene House, farò i tuoi turni. Smettila di gongolare come una bambino però, sei ridicolo.” Foreman sembrava molto seccato.
“E’ il sapore della vittoria, ha un effetto…inebriante!” insistette House.
“Come fai a sentire il sapore della vittoria, quando hai una paziente che sta morendo senza che tu sia riuscito neanche a capire di che genere di patologia si tratta?” gli chiese Chase.
“Guastafeste!” esclamò House, voltandosi verso quest’ultimo. “Vai a sfogare le tue frustrazioni da qualche altra parte! A proposito…” lo avvicinò di qualche passo “…tu sai qualcosa della mia tazza?”
“House, per favore…” Foreman era esasperato.
“No, non ho visto la tua tazza.” mentì Chase. “Ora cosa facciamo?” chiese poi, accennando alla lastra del ragazzo.
House strinse gli occhi e sembrò studiarlo per qualche istante, poi si voltò anche lui verso la lampada. “Rivoltatelo come un calzino…” disse alla sua equipe.
I tre medici si guardarono perplessi, senza accennare a muoversi.
“Cosa?” chiese titubante Cameron.
“Prendete quel ragazzino e fategli tutti gli esami possibili, il più in fretta possibile. Dobbiamo capire perché in lui quella macchia ha provocato solo la paralisi ad un arto, mentre sta uccidendo sua madre.” spiegò House, guardandoli serio.
“Quindi adesso la macchia, da qualcosa che può avere a che fare col disturbo è diventata quella che ha provocato il disturbo?! Ma ti sembra possibile che una lesione all’area di Broca possa aver provocato tutto quello?” Foreman era spazientito dall’ostinazione del suo capo.
“No, ma l’ipotesi di Cameron sembra sempre più possibile. Può essere qualcosa che si è nascosto dietro a quella cicatrizzazione e che ad un certo punto ha incominciato il giro turistico del cervello. Nel bambino però ha preso casa nel primo luogo confortevole che ha trovato; nella Pivet invece sta facendo l’interrail…e lascia qualcosa di sé ovunque passa…” disse House, riflettendo ad alta voce.
“Oppure si prende un souvenir…ovunque passa.” disse Cameron, anche lei assorta.
Chase e Foreman si guardarono dubbiosi.
“Questa metafora fa schifo, puoi spiegarti meglio?” chiese Wilson, apparendo all’improvviso dietro i medici.
House non rispose, sembrava assente: era perso nei suoi pensieri.
“Pensavamo ad un parassita, che si è diffuso nel cervello e sta distruggendo il sistema nervoso. In questo caso il cervelletto della paziente…e ora sembra essere arrivato al tronco encefalico.” spiegò Cameron all’oncologo.
“E’ in dirittura d’arrivo…” commentò Wilson.
“Già. Potrebbe agire diffondendo qualcosa nel cervello oppure…avevo pensato che magari potrebbe sottrarre qualcosa…” tentò Cameron, guardando il suo capo.
“Non capisco, Allison, cosa potrebbe sottrarre per provocare sintomi come quelli che stiamo vedendo.” chiese l’oncologo a Cameron.
“Ehi ehi ehi! Non permettergli di chiamarti per nome, ok?” sboccò House, rivolto alla dottoressa.
Questa posò confusamente lo sguardo prima sul suo capo, poi su Wilson e ancora su House. “Perché?” chiese titubante.
“Chiedilo a Lisa.” disse Foreman, ridendo.
Cameron sembrò non capire e, ignorandoli, cercò di andare avanti a spiegare la sua ipotesi: “Credo che se fosse un parassita potrebbe…”
“Basta così.” la interruppe House. “Ho capito cosa intendi e può essere un’idea interessante. Brava.”
Lei abbassò lo sguardo, in imbarazzo. Non ricordava di aver mai ricevuto un complimento così diretto dal suo capo, per il suo lavoro.
“Adesso però fate tutti gli esami necessari al marmocchio, e coi dati in mano organizzeremo un piano d’azione.”
“Va bene generale.” disse Chase, prendendolo in giro.
House lo guardò torvo. “Tu stai lontano dal ragazzino, ti occuperai di tenere in vita la Pivet. Dov’è?” chiese poi House, guardandosi in giro alla ricerca di Elliot.
“L’ho lasciato in bagno.” disse Foreman.
“L’hai lasciato solo?” chiese House, sconcertato.
“Dai House, è un ragazzino, cosa vuoi che faccia?”
“Sei un idiota. Andate a prenderlo e fategli subito un prelievo, tanto per cominciare.”
I tre medici uscirono dalla stanza, ognuno col suo compito.
Wilson guardava House, sorridendo.
“Cosa vuoi?” gli chiese questi.
“Le hai detto che è brava. Tu non dici mai a qualcuno della tua squadra che è bravo. E’ una questione di principio: solo insulti, niente complimenti. Hai paura che si abituino troppo bene.”
“E’ vero. Ti ha disorientato?” chiese House all’amico, incuriosito.
“Si. Incominci a perdere il controllo.” rispose Wilson, dando una pacca sulla spalla del diagnosta.
“Ti sbagli. Lei sta giocando a disorientarmi…voglio fare lo stesso.” asserì House, lo sguardo perso verso la porta da dove era appena uscita Cameron.
“Quando la finirai di fare il bambino e prenderai di petto i tuoi sentimenti?” gli chiese Wilson, esasperato dal suo comportamento.
“Ma smettila di fare la femminuccia!” lo insultò House, con finto disprezzo.
Wilson scosse la testa sconsolato, facendo per andarsene.
In quel momento si sentirono dei passi veloci avvicinarsi all’ufficio.
Entrambi i medici alzarono lo sguardo verso la porta.
“Elliot.” disse Foreman, ansimando per la corsa. “Non lo troviamo.”

31 gennaio, h 16.50
Princeton Plaisboro Teaching Hospital

“Bisogna avvisare la Cuddy.” era la terza volta che Foreman tentava di convincere il suo capo ad avvisare Lisa della scomparsa del ragazzo.
“Se tu non l’avessi lasciato solo, a quest’ora avremmo già i risultati degli esami e staremmo curando sua madre!” Chase appariva molto ansioso, ed aggredì Foreman.
“E se tu non fossi nato in Australia non avresti un accento così fastidioso.” si inserì House, rivolto a Chase. “Ma tu sei nato lì e la tua voce è terribilmente irritante. Smettila di fare la mamma isterica e continua a cercare!”
“Abbiamo guardato ovunque. Bisogna avvisare la Cuddy, ci farà guardare le registrazioni e…” ritentò Foreman.
“No!” gli tolsero la parola House e Chase assieme.
“Se lo dici alla Cuddy chiamerà la polizia e Elliot finirà in un istituto.” disse Chase, a bassa voce.
“Se lo dici alla Cuddy chiamerà la polizia e non potremo più mettere sotto sopra quel ragazzo per vedere cos’ha!” neanche la motivazione di House convinse il neurologo.
In quel momento arrivò Cameron, con passo svelto.
“Ha tentato di avvicinarsi a sua madre?” le chiese House.
“No. Io non sto più a fare la guardia ai poliziotti che fanno la guardia alla Pivet! Manda qualcun’altro.” la dottoressa sembrava molto nervosa.
“Sicura che non l’hai visto?” insistette House, insospettito dalla sua irrequietezza.
“No.” ribadì lei, guardandolo negli occhi. “E io lì non ci torno.”
“Perché?” chiese Foreman spontaneamente.
“Perché sono stufa…” indicò confusamente la direzione da cui era venuta.
“I poliziotti stanno esagerando con gli apprezzamenti?” le chiese House.
“Decisamente.” si limitò a rispondere Cameron, tentando di trattenere lacrime di rabbia.
“Scusa, non ci avevo pensato. Ora ci va Chase, se vanno pazzi per le more, un biondino così lo lasceranno in pace.” disse House, mettendole una mano sulla spalla, comprensivo.
Cameron lo fissò qualche secondo, disorientata dal suo insolito comportamento, almeno tanto quanto gli altri due medici.
“Ehi, io non vado dalla Pivet. Ci sono già i poliziotti. Io continuo a cercare Elliot.” protestò Chase.
“Siamo in quattro…” disse Foreman.
“Cinque, c’è anche Wilson.” lo interruppe House.
“…cinque.” proseguì il neurologo “In cinque a cercare un ragazzino in questo immenso ospedale senza poter chiedere se qualcuno l’ha visto in giro, perché c’è il rischio che si capisca che lo stiamo cercando? House, ti rendi conto che basta vederti girare per i corridoi per allarmare la Cuddy? Se lo scopre da sola non ci sarà modo di ragionarci, se invece glielo diciamo noi… Dobbiamo dirlo alla Cuddy!”
“Dovete dirmi cosa?” Lisa comparve accanto ai medici, prendendoli di sorpresa. Tutti e quattro trasalirono.
“E’ incinta!” esclamò House, prendendo Cameron per un braccio e spingendola di fronte alla Cuddy. “Non sappiamo chi è il padre…ne stavamo discutendo. Foreman sostiene che potresti esser tu ma…gli stavo appunto assicurando che sei una donna.”
Il neurologo guardò House, sconvolto.
“Cosa state combinando?” disse la Cuddy, ignorando il diagnosta. “Un paio di infermiere mi hanno avvisato che c’è il dottor House che gira a piede libero per l’ospedale insieme alla sua equipe…non so perché ma quando ti muovi troppo si crea un allarmismo generale qui in ospedale, che arriva sempre alle mie orecchie.” la Cuddy gli sorrise, ma tutt’altro che amichevole.
Vedendo che House non rispondeva, si voltò verso gli altri tre medici. “Vi prometto che, se non mi dite entro dieci secondi cosa sta succedendo, vi licenzio in tronco tutti e tre e procuro ad House un’equipe nuova di zecca.” disse, mantenendo quel sorrisino minaccioso.
“Ricordi quel ragazzino…?” esordì Foreman.
“Ah-ha” lo incoraggiò lei.
“E’ il figlio della Pivet.”
La Cuddy fece scorrere lo sguardo su tutti e quattro i medici, ma nessuno sembrava voler dire di più.
“State scherzando? Quella donna ha 26 anni.” tentò di ribattere lei.
“Ed Elliot 12. E’ figlio suo, Cuddy. Basta guardarlo.” disse Chase, impaziente. “Bisogna trovarlo.”
“Avvisiamo la polizia! Abbiamo due poliziotti in ospedale, possono esserci comodi, no?” ribatté la Cuddy, incominciando a camminare lungo il corridoio, verso la camera della Pivet.
Chase l’afferrò bruscamente per un braccio.
Lei si voltò e lo guardò incredula, ma lui non mollava la presa.
“Non avvisare la polizia, Elliot vive in strada, lo porteranno in istituto.” le disse, guardandola negli occhi.
House posò la mano su quella di Chase, scostandola dal braccio del loro capo. “Ti consiglio di trovare modi più gentili per attirare la sua attenzione, se vuoi che il tuo Elliot ti riconosca a fine giornana.” disse al medico.
“Cuddy.” lei si voltò verso il diagnosta. “Ci serve Elliot per curare la Pivet. Non sappiamo cos’ha.” House sospirò e la guardò intensamente negli occhi. “Non riesco a capire che cos’ha. Non so più a cosa pensare. Mi serve quel ragazzino perché ha un disturbo simile alla madre. In lui c’è la chiave di questo mistero. Dammi qualche ora, poi ti consegno il ragazzo e puoi farci quel che vuoi.”
La Cuddy lo fissò qualche secondo, ragionando sul da farsi.
“Vi lascio la giornata. A mezzanotte avviso l’agente Dereck. Trovatelo e fategli gli esami che dovete fare, compreso quello del DNA. Se scopro che non è il figlio della Pivet il costo di tutti questi test verrà scalato dai vostri stipendi.”
House annuì. “Ci dai una mano a trovarlo?” le chiese.
La Cuddy alzò gli occhi al soffitto.
“Mi faccio portare le videoregistrazioni di oggi, vi avviso appena sono nel mio ufficio.”
“Grazie.” risposero in coro tutti e quattro.
Lei li guardò perplessa, poi si voltò e tornò sui suoi passi.

31 gennaio, h 17.30
Ufficio di House

House rientrò nel suo ufficio, insieme a Wilson.
Si sedette alla sua scrivania e chiamo Cameron sul cellulare. “Novità?” le chiese.
“Niente. Abbiamo cercato ovunque. Chase e Foreman si danno il cambio davanti alla camera della Pivet. La Cuddy ha detto che le videoregistrazioni non le sono ancora arrivate. Wilson…l’ho perso di vista da un po’.”
“E’ con me.” disse il diagnosta.
“House, il ragazzino potrebbe essersi spaventato e potrebbe semplicemente essere scappato!” disse lei.
“No. E’ escluso. E’ qui da qualche parte.” replicò lui. Notò il libro del ragazzino, abbandonato a terra, in sala equipe. Fece cenno a Wilson di andarglielo a prendere. Questi lo afferrò da terra e lo passò all’amico, che lo aprì.
“Cosa facciamo?” chiese Cameron, impaziente.
“Continuate a cercare. Dev’essersi nascosto da qualche parte, prima o poi uscirà allo scoperto. La paziente?”
“E’ stabile.” rispose lei, sospirando. Poi riattaccò.
House sfogliò distrattamente il libro. “Ma che roba è?” disse ad un certo punto, passando la mano su una pagina.
Wilson si mise alle sue spalle, guardando incuriosito il libro. “Sembra…unto.” disse. “Che schifo. Chissà da quante mani poco lavate è passato quel libro.”
“E’ strano però…vedi? I contorni della macchia sono ben definiti e le scritte sono scolorite…E’ come se ci avesse tenuto qualcosa di unto per un po’…” ipotizzò House, ragionando ad alta voce.
“Si, magari un filetto di carne rubato da qualche piatto in mensa?! Cosa vuoi dire?” gli chiese Wilson.
House lo fissò per qualche secondo, senza dire niente. “Siamo degli idioti.” affermò poi. “La placenta!”
“La placenta cosa?” gli chiese l’oncologo, confuso.
“La placenta è…tutto! Come abbiamo fatto a non tener conto di un particolare così…stravagante?! Come ho fatto a non pensarci?” House chiuse bruscamente il libro ed alzò la cornetta del telefono.
“Chi chiami?” Wilson era sempre più disorientato.
“La Cuddy. Tu chiama Foreman e digli di non muoversi dalla stanza della Pivet.” gli ordinò.
Wilson telefonò al neurologo comunicandogli la direttiva di House.
“Cosa vuoi?” rispose ostile la Cuddy, visualizzando il numero di House sul display.
“Fatti portare le registrazioni del giorno precedente alla scomparsa della Pivet.” le disse il diagnosta.
“Cosa?! Perché?” chiese lei.
“Quel piccolo b@st@rdo è già stato qui, è già stato in questo ospedale! Il giorno in cui sua madre si è miracolosamente alzata dal letto ed è fuggita.” disse il diagnosta, concitatamente.
“House, stai delirando…” replicò la Cuddy.
“No. E’ la placenta il punto. Il giorno che la paziente si è ripresa, lui è stato qui e le ha portato la placenta, gliel’ha fatta mangiare.”
“La placenta ha fatto scomparire il sintomo?!” chiesero contemporaneamente la Cuddy e Wilson, che seguiva sconcertato la telefonata.
“Si. Non chiedetemi in che modo, ma è quello il fattore che ha modificato il sintomo.” House sembrava convinto della sua tesi.
“Stai vaneggiando.” disse decisa la Cuddy, dall’altra parte del telefono.
House sospirò, irritato, e passò la cornetta a Wilson. “Convincila a procurarsi quelle registrazioni, e guardatele assieme. Trovate quel ragazzo. Credi che sapresti riconoscerlo?”
“Si, credo di si.” rispose l’oncologo, prendendo la cornetta dalle mani dell’amico.
“Bene.” House prese il libro e lasciò la stanza.

31 gennaio, h 17.30
Princeton Plaisboro Teaching Hospital

Chase stava ripercorrendo, per l’ennesima volta in un’ora, la rampa di scale del Plaisboro.
Voltato un angolo, si trovò davanti improvvisamente Elliot.
Fece un salto indietro per lo spavento. “Elliot! Ma dov’eri finito?!” gli chiese, andandogli incontro.
“Deve aiutarmi a raggiungere mia madre.” gli disse il ragazzino, guardandolo serio.
“Certo. Prima però dobbiamo farti degli esami. La tua risonanza magnetica ci ha evidenziato una lesione nel cervello che ha anche tua mamma. Se capiamo quello che è successo al tuo braccio, probabilmente riusciremo a guarirla.” gli spiegò Chase, avvicinandosi fino a trovarsi davanti a lui.
“Niente esami. I vostri esami non servono a niente.” obiettò Elliot, con aria cupa.
“Ma cosa stai dicendo? Sei venuto qui per permetterci di aiutarla.” disse il medico, titubante.
“No, io sono venuto qui per salvare mia mamma. Lei deve solo permettermi di avvicinarla. Deve far spostare quei poliziotti.” il tono di voce di Elliot era troppo autoritario, e contrastava la sua figura gracile di ragazzino.
Qualcosa in lui incominciò ad spaventare Chase. “Ok. Ora raggiungiamo gli altri e troviamo un modo di fartela incontrare…” gli disse, posandogli una mano sulla spalla.
Elliot indietreggiò di un passo, allontanando bruscamente la mano del dottore. “Non mi tocchi, dottor Chase, e non mi prenda in giro. Ora lei va nella stanza di mia madre, dice ai poliziotti che deve farle un esame urgente e la porta fuori di lì.” il tono della voce del ragazzino fece venire i brividi a Chase, che incominciò a sentirsi stranamente debole e disorientato. I suoi occhi non riuscivano a staccarsi da quelli di Elliot.
“No…perché?” si rese conto di essere in stato confusionale e sentì che doveva allontanarsi il più presto possibile da lui, ma ci riusciva.
“Ora, dottor Chase, tu vai nella camera della signorina Pivet, dici hai poliziotti che la porti a fare un esame e fai in modo di trovarti solo con lei.” ribadì il ragazzino.
Lui annuì debolmente; ormai aveva perso il controllo di quello che stava accadendo.
Improvvisamente, la porta che dava sulle scale si aprì e Cameron si trovò davanti Elliot e Chase, che si fissavano negli occhi a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro.
“Chase! L’hai trovato?” disse, chiudendosi la porta alle spalle ed avvicinandosi alla coppia.
Il medico sembrò come risvegliarsi: si guardò intorno confuso, posò lo sguardo su Cameron, poi su Elliot, e si rese conto di quello che il bambino stava facendo con lui.
Lo prese con forza per un braccio. “Piccolo b@st@rdo.” disse tra i denti.
Elliot però si dimenò violentemente e, prima che Cameron o il collega potessero reagire in nessun modo, tirò un pugno allo stomaco di Chase, con tutte le sue forze. Questi, preso alla sprovvista, mollò la presa e si piegò in due dal dolore.
Elliot si voltò e sparì in pochi secondi sulla rampa di scale.
“Chase, tutto bene?” chiese allarmata Cameron, correndo accanto al collega e aiutandolo a sedersi.
“Si, quel figlio di putt@n@…” entrambi si voltarono nella direzione in cui Elliot era scappato, ma di lui non c’erano più tracce.

 
Top
darkLady!!!
view post Posted on 31/12/2006, 11:07




Fantastica la tua fanfiction!!!!Mi sono davvero appassionata!!!!!

Continua così!!!Non vedo l'ora di leggere il resto della storia!!!!!

FORZAAAAAAAAAA °vally°!!!!!!!!!!!!!!! :AngelStar16: :AngelStar16: :AngelStar16: :AngelStar16: :Ciuffo02:

Sei davvero brava nello scrivere!!!!!! :AngelStar01: :AngelStar01:
 
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°vally°
view post Posted on 31/12/2006, 12:04




Grazie 1000!!!!
Meno male che c'è qcn che commenta... :)
Mi metto subito al lavoro!
 
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17fede
view post Posted on 31/12/2006, 12:57




Continua continua!!! Ho appena finito di leggere l'ultimo capitolo e sono troppo curiosa di sapere come va a finire!!! :AngelStar02: :AngelStar01: :Azzurro05:
 
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°vally°
view post Posted on 31/12/2006, 17:40




CAPITOLO 14

31 gennaio, h 17.45
Ufficio della Cuddy

“Va meglio?” chiese Cuddy a Chase, che era seduto sul divano nel suo ufficio e la guardava con un’espressione distrutta.
“Si, era solo il pugno di un ragazzino.” le rispose, cercando di stare dritto per non dar a vedere il male che lo stomaco gli faceva.
“Quel ragazzino prima ti ha conquistato con la sua aria innocente e la sua storia da film dossier, poi ti ha manovrato come un burattino e infine ti ha lasciato a terra sanguinante. Non sei neanche un po’ arrabbiato?” lo provocò House, seduto accanto a lui.
“Sono inc@zz@to nero con quel mostro.” gli rispose Chase, guardandolo negli occhi.
“Guarda che non devi dirlo solo per compiacermi…” insistette House.
“House finiscila di provocarlo.” disse Wilson, osservandolo da sopra lo schermo del computer, dove stava esaminando, insieme a Cameron, le registrazioni delle telecamere.
“Ho già guardato io quelle registrazioni, la notte che la Pivet è scappata.” disse Cuddy, per l’ennesima volta.
“Ti sarà sfuggito qualcosa, sono sicuro che è stato qui. Spiega anche perché riesce a nascondersi così bene nell’ospedale: non è la prima volta che lo fa.” House continuava a sostenere cocciutamente la sua tesi.
La Cuddy sospirò, guardando l’orologio. “Perché abbiamo smesso di cercarlo?” chiese poi al diagnosta.
“Perché se non vuole essere trovato non si farà trovare.” disse questi, posizionandosi alle spalle di Cameron per osservare anche lui le videoregistrazioni. “E’ uscito allo scoperto perché voleva parlare con Chase.”
“Parlare?! Quel b@st@rdo mi ha ipnotizzato!” esclamò Chase.
“Già…ora capisco perché mi inquietava così tanto…” disse House, soprappensiero.
“Anche a me.” confidò Cameron, voltandosi verso il suo capo. “Non riuscivo a capire perché, ma mi faceva venire la pelle d’oca.”
“L’effetto magico della suggestione…” precisò lui. “L’ipnosi è una tecnica di condizionamento come tante altre, solo molto più potente.”
“Dillo che sei geloso. Ti ha rubato il primato.” lo schernì Wilson.
“Lui avrà una tecnica speciale per influenzare i poveri medici con traumi infantili” disse House, indicando Chase che lo guardò accigliato “ma è pur sempre solo una bambino. Io sono più grande, ho più esperienza. Ho manipolato almeno dieci volte il numero di persone che ha manovrato lui.”
“Wow! Scrivetelo sul curriculum!” lo apostrofò Cuddy.
“Intendevo dire che è bravo a fare quello che fa, ma che non può fregare me.” chiarì House.
“Quando finisce questa danza dell’autoelogio e ci spieghi cosa dobbiamo fare adesso?” Chase sembrava impaziente.
“Voglio capire come ha fatto ad avvicinare la madre il giorno prima che lei scappasse. Saperlo ci potrà aiutare a trovarlo, che a sua volta ci permetterà di analizzare lui e la placenta che sicuramente ha con sé, e a guarire la Pivet.”
“Piano perfetto! Peccato che quella donna potrebbe avere da un momento all’altro un arresto cardiaco.” replicò la Cuddy.
“C’è sempre il ragazzino. Dai, non vi incuriosisce quel malefico genietto?” chiese House ai colleghi, che lo guardarono perplessi, senza aprir bocca.
“House, devi guarire quella donna. Ti sto lasciando fare perché capisco quanto quel ragazzino possa esser importante a raggiungere il nostro scopo. Ma stiamo rischiando grosso con la polizia. Non posso permetterlo.” disse seria la Cuddy.
“Lo so. I nostri patti non cambiano: lasciami la giornata.” replicò lui.
Lei annuì e si avvicinò a Chase. “Fammi vedere lo stomaco.”
“Sto bene.” disse lui, sulla difensiva.
“Ok, ma fammi vedere.” Chase si alzò la maglietta controvoglia e la Cuddy gli tastò il torace.
House si voltò verso Wilson, che li osservava pensieroso.
“Geloso?” gli chiese, a bassa voce per non farsi sentire.
“No. Io sono decisamente meglio.” rispose lui, stando al gioco.
Cameron si voltò verso l’oncologo, seduto accanto a lei, sorridendogli complice.
“Ehi, ma lo sanno proprio tutti!” House, ancora in piedi dietro a Cameron, posò le mani sulle spalle della dottoressa e fece l’occhiolino a Wilson.
Questi preferì ignorarlo e riprese a osservare lo schermo del computer.
House e Cameron fecero lo stesso, anche se la dottoressa faceva fatica a concentrarsi sentendo la lieve pressione delle calde mani del suo capo sulle sue spalle.
Lentamente lui fece scorrere una mano lungo il suo collo, e incominciò a massaggiarglielo delicatamente. “Come sei rigida.” le disse, in un sussurro.
Lei sembrò non reagire e continuò a guardare le immagini che si susseguivano nella videoregistrazione.
Wilson percepì la tensione che si stava creando tra i due e decise di cambiare aria.
“Bene, pensateci voi ai video.” disse, alzandosi. “Io per sicurezza faccio un altro giro per l’ospedale. Vieni con me?” chiese alla Cuddy.
Lei lo guardò perplessa. “Ma…” tentò di protestare. Lui si avvicinò, la prese per mano e la fece alzare dal divano. Poi si rivolse a Chase: “Raggiungi Foreman. Meglio stare a coppie, nel caso Elliot tentasse ancora di adescare uno di noi.”
Chase all’inizio non capì la presa di posizione di Wilson, ma poi incrociò lo sguardo di Cameron e, superando l’iniziale morso di gelosia, decise di fare come lui gli diceva.
“Ok” rispose all’oncologo, alzandosi a fatica dal divano.
Wilson lo aiutò, senza smettere però di stringere la mano del suo capo.
“Siete adorabili.” li canzonò House.
I due si separarono e, mentre tutti e tre lasciavano l’ufficio della Cuddy, quest’ultima si girò: “Anche voi.” disse al diagnosta, sorridendogli.
House e Cameron rimasero soli, ma lui continuò a restare in piedi dietro l’immunologa, le mani ferme su di lei.
“Resti lì?” gli chiese lei, voltandosi leggermente.
“Si, da qui ho un’altra prospettiva, magari noto qualcosa nel video che tu non vedi.” rispose House, conscio di quanto scadente fosse quella scusa.
Cameron infatti rimase a guardarlo qualche secondo perplessa, prima di volgersi ancora verso il computer. Sospirò: non riusciva proprio a capire cosa passasse per la testa del suo capo.
Trasalì quando lui riprese a massaggiarla.
“Una settimana fa non mi avresti mai massaggiato il collo. Non mi avresti mai toccata.” gli disse.
“Ti dà fastidio?” le chiese lui, conoscendo già la risposta.
“No, lo sai che non è così.”
“Allora stai zitta. Mi viene più facile andare oltre le parole, se non ne sento.” House usava ancora quel tono di voce che dava i brividi alla dottoressa.
Lei sorrise. Visti i precedenti, quel breve scambio di battute portato a termine senza che lui la offendesse e quel breve accenno a quello che provava, era da considerare un grosso progresso.
Tentò di rilassarsi e chiuse gli occhi, sicura che, nonostante il momento, House non si sarebbe perso neanche un secondo delle registrazioni che stavano guardando.
“Aspetta!” esclamò infatti, ad un tratto.
Tolse le mani dalle spalle di Cameron, che percepì uno strano vuoto, in quel momento. Cercò però di riprendersi subito, e di prestar attenzione a quello che le mostrava House.
Questi si sedette accanto a lei, e fece tornare indietro il video di qualche fotogramma.
“Guarda qui!”
L’immagine riprendeva il via vai nel corridoio, durante l’orario delle visite.
House posò il dito sullo schermo del computer, indicando due figure al limite del campo visivo della telecamera.
Un’infermiera, che Cameron riconobbe, stava parlando con un ragazzino. Questo compariva solo in alcuni fotogrammi, perché per la maggior parte della scena rimaneva all’esterno del campo visivo della videocamera.
Nonostante non fosse chiaro quello che stava succedendo, quel ragazzino era indubbiamente Elliot.
“E’ lui.” confermò Cameron, presa ancora da quella strana inquietudine che il bambino riusciva a trasmetterle.
“Ho capito.” disse House, dopo qualche minuto in cui si concentrò unicamente sul filmato.
L’immunologa gli rivolse uno sguardo interrogativo.
“Cuddy non ha notato niente di strano perché si è limitata a vedere se qualcuno di sospetto si avvicinava alla Pivet! Nessuno, al di fuori del personale dell’ospedale, le si è avvicinato. Ok?”
Cameron annuì, ascoltandolo attentamente.
“Però qualcuno di sospetto, nonché di terribilmente subdolo, si è avvicinato a una delle infermiere che se ne occupava.”
House si alzò in piedi, e incominciò a camminare irrequieto per la stanza.
“Elliot ha avvicinato quell’infermiera e ha fatto sul suo cervello quel simpatico lavoretto che ha tentato di fare su Chase. Scommetto che se ci mettessimo a guardare tutte le registrazioni, troveremmo un filmato in cui quella donna dà alla Pivet qualcosa di strano…che scopriremmo essere placenta!”
“Dici che Elliot ha ipnotizzato quell’infermiera e l’ha convinta a portare la placenta alla Pivet?!” chiese Cameron. La teoria del suo capo sembrava inverosimile ma, visto quello che stava accadendo, era molto probabile che fosse andata così.
“Si.”
“Perché allora questa volta ha cercato di convincere Chase a portare sua mamma lontana dai poliziotti? Perché non gli ha semplicemente ordinato di darle la placenta, come ha fatto la prima volta?” domandò la dottoressa, cercando di crearsi un chiaro quadro della situazione.
“Perché è pur sempre uno stupido bambino, che ama la sua mamma, nonostante questa l’abbia fatto crudelmente crescere in mezzo a una strada. Lei è in arresto e anche se guarirà, probabilmente non la rivedrà per molto tempo. Sarebbe l’ultima occasione dare l’addio a mammà…”
Cameron rimase in silenzio, riflettendo sulle parole di House.
“E’ andata così, Cameron! Non fa una piega…” tentò di convincerla lui.
“Va bene. Ma cosa facciamo adesso?” gli domandò lei.
“Sono sicuro che non lascerà l’ospedale senza aver provato a salvare sua mamma. Se vede che non può raggiungerla e non può usare nessuna marionetta, tra un po’ sarà preso dal panico e farà qualche c@zz@t@…”
“Aspettiamo? Ancora?! House quella donna non resisterà a lungo.” Cameron sapeva che potevano considerare un miracolo il fatto che la Pivet fosse stabile da ormai diverse ora, visto il rapido peggioramento che aveva avuto durante la notte.
“Lo so. Allora faremo così: lasceremo un solo poliziotto davanti alla camera della Pivet, e ci terremo tutti lontani da lei per un po’. Il ragazzino coglierà l’occasione e proverà ad entrare nella stanza di sua madre, ma qualcuno di noi sarà là dentro, pronto a catturarlo!” spiegò House, alzando infine il suo bastone, in modo plateale.
“House, sai che io posso anche darti ascolto. Ma dovrai convincere la Cuddy…” gli disse esitante Cameron.
“Andiamo.” le appoggiò una mano tra le scapole, sulla schiena, accompagnandola verso la porta.
“Cos’è? La tua versione personale di abbraccio?” chiese lei, divertita da quel gesto.
“E questa domanda è la tua versione personale della frase: quanto mi piace quando mi tocchi?” ribatté lui, aprendole la porta.
Cameron decise di rispondere con quel silenzio che lui, implicitamente, le chiedeva. I loro sguardi si incrociarono per qualche istante, e bastò questo.
Si chiusero la porta alle spalle e si prepararono ad affrontare il diavolo del Plaisboro.

31 gennaio, h 18.00
Ufficio di House

“Dove siete?” House, dopo aver cercato invano per i corridoi, aveva chiamato Wilson.
“All’ultimo piano, ci sono novità?” chiese l’amico.
“Si, scendete. Vi aspettiamo nel mio ufficio.” House riattaccò e si voltò verso Cameron, in piedi davanti a lui.
“Chase e Foreman?” chiese lei.
“Lasciamoli a controllare la paziente, per adesso. Se Elliot riesce a raggiungerla prima che noi organizziamo un piano per catturarlo, sarà tutto inutile.”
“Cavoli House, siamo medici! Sembriamo una squadra dell’F.B.I!” esclamò la dottoressa, appoggiandosi alla parete e incrociando le braccia.
“Cavoli?!” le fece il verso House, con tono beffardo. “Non sei per niente convincente. Le mie idee ti piacciono un sacco, ti eccitano...”
Le si avvicinò. “…e non solo quelle.” concluse, trionfante.
Lei distolse lo sguardo da lui, senza riuscire a trattenere un sorriso.
“Allora?” Cuddy e Wilson entrarono con passo spedito, interrompendo quello strano momento.
House spiegò rapidamente il suo piano ai colleghi.
“Ma sei impazzito?!” House aveva previsto questa reazione da parte della Cuddy “Credi di essere in una caserma d’addestramento per militari? Hai creato un piano per incastrare un bambino, usando come esca un poliziotto! Se gli agenti scoprono quello che già sappiamo, se il ragazzino raggiunge la madre, se…qualunque cosa andasse storta, andiamo nella m€rd@ House! Tu, io, tutto l’ospedale, tutti i pazienti! Non posso permettermi di rischiare una cosa del genere. Richiama tutta la tua equipe, mettetevi davanti alla tua lavagna e risolvete il caso come fate per tutti gli altri. Io avviso la polizia e racconto del ragazzino, manderanno qualcuno a cercarlo.”
Ci fu qualche secondo di silenzio; la Cuddy credette quasi di averla avuta vinta, per una volta.
Dallo sguardo del suo capo, House capì che l’angoscia della donna per le conseguenze sull’ospedale era sincera: non era arrabbiata per l’insubordinazione o per le sue idee stravaganti, ma era seriamente preoccupata che qualcosa andasse storto.
Tuttavia, la sua convinzione che il piano era perfetto, che non poteva sbagliarsi, gli fece superare come al solito ogni dubbio.
“No, Cuddy. Devi permettermi di fare come ho detto. Hai detto che mi lasciavi la giornata, sei una donna di parola, giusto?”
Lei sospirò. “Piuttosto continuo personalmente a cercare quel ragazzino insieme a Wilson, mentre tu e la tua squadra pensate a salvare la Pivet. Aspetto mezzanotte ad avvisare la polizia, come avevamo accordato. Ma questa follia della trappola non ti permetto di farla.”
“Si certo.” disse House, avvicinandosi un po’ troppo a lei. “Continui a cercare come stavi facendo poco prima, giusto?
“Si. Cosa vuoi dire?” la vicinanza di House e la sua aria minacciosa, misero a disagio la Cuddy che, istintivamente, fece un passo indietro.
“Lisa. Non stavate cercando Elliot, eri imboscata in qualche meandro dell’ospedale a fare sesso con uno dei tuoi dipendenti! Quindi smettila di recitare la parte del buon capo tollerante ma giusto, e dammi retta un attimo.” House le si avvicinò di nuovo, guardandola negli occhi.
Cameron incrociò lo sguardo sconfortato di Wilson e poi tornò ad osservare la Cuddy che, rossa in viso, cercava di combattere tra la voglia di tirare un pugno ad House, l’imbarazzo per la situazione creatasi e il bisogno di rimanere lucida e prendere la decisione giusta.
“Foreman si nasconde nella stanza della Pivet, qualcuno controlla in tempo reale le videoregistrazioni delle telecamere, facciamo allontanare uno dei poliziotti e vediamo che succede. Tu te ne stai tranquilla nel tuo ufficio, se va storto qualcosa non ne sapevi niente. Ok?” cercò di convincerla il diagnosta. “Ti prego…” insistette, visto che lei non rispondeva.
“Come penseresti di allontanare il poliziotto?” gli chiese ad un certo punto.
“A quello ci pensa Cameron.” fu la pronta risposta di House.
“Cosa?!” esclamarono insieme le due donne.
“Dai, ha un debole per te.” disse House, rivolto all’immunologa “Dovresti semplicemente invitarlo ad offrirti un caffè. Fallo per me.” la guardò con occhi dolci.
“Sei un b@st@rdo.” ribadì lei. In quei giorni quella parola si ripresentava nei loro discorsi un po’ troppo spesso.
“Però lo farai.” constatò lui, tornando poi ha parlare con la Cuddy. “Andrà bene Cuddy, quel ragazzino ci cascherà, sta impazzendo dalla voglia di riabbracciare sua mamma!”
“Ti faccio portare a termine questa pazzia, House, ma ascoltami attentamente: comunque vada a finire, anche se andasse tutto com’è previsto dal tuo piano, questa me la paghi.”
Lo superò e lasciò il suo ufficio, visibilmente arrabbiata.
“Non credi di avere esagerato?” gli chiese Wilson.
“No, perché?” rispose House, fingendosi stupito.
“Non devi rivolgerti a lei così, è pur sempre il tuo capo.”
“Non è la prima volta che lo faccio.”
“E’ vero. Ma questa volta l’hai fatto davanti a me e Cameron” precisò l’oncologo “non credo te la farà passare liscia.”
House fece spallucce e cambiò discorso. “Vado a spiegare a Foreman cosa deve fare. Tu e Chase controllerete le videoregistrazioni.”
“…e io mi prostituisco. Tu cosa farai?” chiese Cameron.
“Non esagerare, è solo un caffè. A meno che tu non voglia andare fino in fondo…Io sto qui e coordino l’operazione. Non mi vorrete in azione con una gamba fuori uso?! Vi sarei solo d’impaccio…” disse House con falsa modestia.
Si lasciò cadere sulla sua sedia, prese lo yoyo e incominciò a giocare. “Su, andate!”
Wilson e Cameron si guardarono l’un l’altro e poi uscirono dalla stanza.
Entrambi percepirono un collegamento tra quello che Elliot aveva cercato di fare con Chase e quello che House aveva appena fatto con tutti loro, ma in House c’erano dei precedenti che il ragazzino probabilmente non aveva: non sbagliava mai.
 
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°vally°
view post Posted on 2/1/2007, 11:00




CAPITOLO 15

31 gennaio, h 18.30
Princeton Plaisboro Teaching Hospital

Era tutto pronto.

Chase e Wilson erano nella saletta della security, da soli, seduti davanti a un monitor dove potevano vedere in diretta le immagini delle telecamere. C’era solo uno schermo, e dovevano passare dalla ripresa di una telecamera a quella di un’altra cambiando manualmente il canale: il sistema di sicurezza del Plaisboro non era certo quello di una banca.

Cuddy si limitò a ordinare agli uomini della sicurezza di andare a farsi una passeggiata. Le chiesero spiegazioni ma lei poteva permettersi di non darne, e non lo fece. Gli agenti preferirono non insistere e colsero quell’occasione al volo, andandosi a bere una birra nel locale vicino all’ospedale. La dottoressa si sedette allora alla sua scrivania e cercò di fare qualunque cosa non le facesse pensare a quello che stava accadendo al piano di sopra. Dopo qualche minuto trovò un’occupazione interessante: avrebbe ragionato su come vendicarsi per l’impertinenza di House. Questa volta non voleva fargliela passare liscia: si era sempre preso confidenza con lei, come con tutti, ma mancargli di rispetto davanti a qualcuno della sua equipe era troppo.

Foreman era nella stanza della Pivet e controllava per l’ennesima volta i suoi valori, aspettando che Cameron distraesse i poliziotti per nascondersi nell’unico armadio presente nella camera. Si sentiva un idiota. Sapeva che una volta nell’armadio si sarebbe sentito idiota il doppio. Questa volta House aveva superato il suo limite di follia…e la Cuddy lo aveva assecondato! Chissà come faceva a manovrare così quella donna, che riusciva a gestire da sola un ospedale con decine di dipendenti mantenendo sempre il controllo della situazione. Uno dei tanti misteri che giravano intorno ad House.

Il diagnosta non si era mosso dal suo ufficio, e non aveva smesso di giocare col suo yoyo. Aveva chiamato Foreman sul cercapersone e gli aveva spiegato cosa doveva fare. Ogni suo tentativo di protesta era stato bloccato aspramente. Ma sapeva che questa volta stava esagerando.
Fece il punto della situazione.
La Cuddy era inc@zz@ta con lui, ma non come al solito: le aveva mancato di rispetto davanti a Cameron e davanti a Wilson e lei si sarebbe vendicata. Ne era sicuro.
Foreman era esasperato, a breve si sarebbe dovuto subire una delle sue rare ma penetranti prediche.
Chase, comunque sarebbero andate le cose, avrebbe avuto una delle sue crisi emotive: quel ragazzino l’aveva coinvolto troppo.
Wilson…bhè, Wilson gli avrebbe perdonato tutto. Gli venne da sorridere. Era bello avere un amico là dentro, era fondamentale per sopravvivere. Sapeva che, però, queste riflessioni sarebbero rimaste per sempre solo sue. Era un suo amico ma questo non voleva dire che poteva permettergli il lusso di un complimento; quelli erano rari e servivano solo a portarsi a letto una bella donna. Non era certamente il suo caso.
Infine c’era Cameron… Pensava che avrebbe reagito diversamente a quello che le aveva ordinato di fare; si aspettava una scenata drammatica, un discorso sul rispetto della sua persona o stronzate simili. Si era arrabbiata, ma poi aveva accettato l’incarico liquidandolo con un atteggiamento sarcastico che non aveva mai visto in lei. Le mille sfaccettature che aveva presentato negli ultimi giorni lo stavano confondendo: si era trasformata in un puzzle. Irresistibile, per lui.
I giorni seguenti sarebbero stati molto intensi.
Tentò di non pensarci. Il suo cercapersone era posato sulla scrivania; doveva limitarsi a far andare su e giù il suo yoyo finché non avesse suonato.
Sarebbe andato tutto per il verso giusto, ne era sicuro.

Cameron si chiuse in bagno.
Posò le mani sul lavandino e si guardò allo specchio.
Lacrime silenziose le bagnavano il viso.
Se le asciugò col dorso della mano, sistemandosi poi il trucco che era leggermente colato.
Era orgogliosa di se stessa, perché era riuscita a non crollare davanti ad House e Wilson. Poi, però, non ce l’aveva più fatta: le aveva chiesto di fare una cosa che per lei era immorale, ed aveva accettato. Era disgustata. La relativa indifferenza che era riuscita a mantenere davanti ad House era stata il risultato di un grosso sforzo di volontà, e ora ce ne sarebbe voluto un altro, ancora più grande, per portare a termine quello stupido piano.
Tentò di non pensare più di tanto. “Prendilo come un gioco, una recita.” sussurrò a se stessa, guardandosi allo specchio e sorridendo. “Forza Allison.”
Fece un profondo respiro ed uscì da quel fragile rifugio.

In fondo al corridoio, i due agenti della polizia erano assorti nella lettura delle pagine sportive di un malconcio giornale. “Certo che se stanno di guardia in questo modo…” pensò Cameron, avvicinandosi.
Prima che i poliziotti la notarono, buttò lo sguardo dentro alla camera della Pivet. Foreman le fece l’occhiolino, incoraggiante.
Si sentì un po’ meglio.
“Ciao bellezza!” l’accolse uno dei due poliziotti, appena la vide, in piedi davanti a loro. L’altro agente chiuse subito il giornale, sorridendole. “C’è già il tuo collega dentro, tu puoi restare un po’ qui con noi, che ne dici?”
“Ero appunto venuta a chiedere se, a uno di voi, va di accompagnarmi gentilmente a prendere un caffè. Odio fare la pausa da sola, e sono tutti troppo indaffarati per dedicarmi 5 minuti.” Lei adorava fare la pausa da sola, e odiava mentire. Si pentì di quello che stava facendo, ma era troppo tardi.
“Stiamo lavorando dolcezza, sai che ti adoriamo ma non possiamo lasciare il nostro posto qui davanti.” Cameron non si aspettava quel rifiuto, ma si rese conto che era debole e che sarebbe bastata un’altra sua parola a far cambiar idea al poliziotto.
“Ma siete in due…” disse esitante, cercando di sorridere. Probabilmente le uscì solo un’amara smorfia, ma gli agenti non sembrarono badare a questo dettaglio.
“Bhè, non posso rifiutare un invito simile, mi pentirei per tutta la vita.” disse uno dei poliziotti, alzandosi.
L’altro lo guardò accigliato, ma non protestò. “Non stare via un’ora.” si limitò a dirgli, riprendendo subito a leggere il suo quotidiano, senza degnare la dottoressa di uno sguardo.
Evidentemente uno dei due poliziotti era un tipico uomo che parlava tanto, ma stava al suo posto nel momento in cui si rischiava di andare oltre le parole. Cameron ne fu immensamente sollevata: l’ultima cosa che voleva in quel momento, era una discussione tra i due per decidere chi l’avrebbe accompagnata.
“Andiamo, bellissima!” le disse l’agente che si era offerto di accompagnarla, precedendola lungo il corridoio. Cameron si voltò ancora rapidamente verso la stanza, ma vide solo la Pivet.
Foreman aveva evidentemente colto l’occasione del suo arrivo per nascondersi.
“Posso sapere il tuo nome?” gli chiese Cameron, cercando di mettere un briciolo di umanità in quell’amorale siparietto.
“Mike. Chiamami Spender però, solo mia moglie mi chiama per nome.” le rivolse un sorriso ambiguo.
A Cameron venne voglia di vomitare.

“Torna sulla camera della Pivet.” disse Wilson a Chase, che cercava di seguire, con le telecamere, Cameron e il poliziotto.
“Guardala, è sconvolta. Non avrebbe dovuto accettare, quell’uomo potrebbe essere pericoloso.” commentò Chase, seriamente preoccupato per la collega.
“E’ un poliziotto ed è di turno. La cosa peggiore che Cameron rischia è qualche apprezzamento un po’ troppo pesante. Se la caverà, dev’essere abituata a questo genere di approcci, no? Con quel corpo…”
Chase si voltò, scandalizzato, verso l’oncologo.
“Ma cosa stai dicendo?!” lo ammonì. “Stai parlando di Cameron!”
“Sto scherzando Robert, non te la prendere.” Wilson si rese conto di aver provocato Chase, cosa che rimproverava sempre ad House. Però era così divertente…
“Volevo solo dire che è una donna adulta, molto carina, alla quale sarà capitato diverse volte di ricevere della avance. Gestirà benissimo la situazione.” tentò di rimediare l’oncologo.
Chase non sembrò molto convinto, ma tornò a visualizzare la schermata che dava sull’ingresso della camera della Pivet.
Passarono una decina di minuti, durante i quali, comunque, non persero di vista Cameron e il poliziotto. Sembravano parlare tranquillamente e lei pareva essere più rilassata. Questo tranquillizzò anche loro: se la conversazione fosse continuata così, probabilmente avrebbero avuto più tempo di quanto speravano.
Cambiarono ancora canale e lo videro: Elliot era in piedi davanti al poliziotto rimasto di guardia, e gli stava parlando. Questo lo osservava con un’espressione perplessa, ma non staccò neanche per un secondo gli occhi dal ragazzino. Il giornale gli pendeva tra le mani, e ad un certo punto cadde a terra, senza che se ne accorgesse.
Elliot si chinò, senza perdere il contatto visivo con l’uomo, e raccolse il quotidiano col braccio sano, rimettendoglielo tra le mani. Il “grazie” del poliziotto fu l’unica parola che i due dottori riuscirono a capire. Poi questo si alzò e si allontanò.
Chase si voltò verso Wilson. “Cristo…ma hai visto?!”
L’oncologo annuì, e prese il suo cercapersone. “Arriva.” scrisse, e inviò il messaggio a Foreman.
L’ultima cosa che videro fu Elliot entrare nella stanza di sua madre; purtroppo all’interno non vi era una telecamera utilizzabile.
“Che facciamo? Non possiamo lasciare da solo Foreman con quel mostro.” disse Chase.
“No, hai ragione. Tu resta qui. Vado io.” L’oncologo si alzò e lasciò la stanza.

“Arriva.” lesse Foreman sul display del suo cercapersone.
“Fantastico.” pensò.
Aprì leggermente un’anta, per dare un’occhiata fuori.
Elliot si guardava intorno furtivo, mentre si avvicinava al letto.
Si accorse che stava piangendo. Un ragazzino così piccolo, con un braccio paralizzato e in lacrime…e lui doveva catturarlo come se fosse stato un ladro; questa House gliel’avrebbe pagata.
Ad un certo punto Elliot tirò fuori qualcosa da sotto il maglione. “Che schifo.” pensò Foreman,, quando si rese conto che lì teneva parte della placenta che aveva trovato a casa della Pivet, o magari quella di un altro parto…
Decise che era il momento di agire: rapido, uscì dal suo nascondiglio e prese il ragazzino alle spalle.
Questi fece una cosa che il neurologo non si aspettava: urlò.
“M€rd@.” disse Foreman, in un sussurro, tappando la bocca al ragazzo con una delle sue grandi mani. Non si aspettava una reazione del genere; pensava che avrebbe lottato in silenzio, per non farsi notare da qualcun altro, ma, effettivamente, se gli avessero scoperti non sarebbe stato Elliot a passare dei guai, almeno finché non si fosse chiarita la situazione.
Vide che qualcuno si avvicinava e si gettò ancora nell’armadio, senza lasciare la presa sul ragazzino. Questo lottava come un dannato, dimenandosi continuamente e cercando di mordere la mano di Foreman.
Lui però era più forte di Chase, e non ebbe grosse difficoltà a tenerlo immobile.
Una volta chiuso nell’armadio però, con Elliot che incominciava a piangere di nuovo, non seppe più cosa fare. Se il poliziotto fosse tornato?
Sentì dei passi.
Trattenne il respiro e spinse ancora di più la mano sulla bocca del ragazzo, attento a lasciargli il naso scoperto per respirare.
Ad un certo punto la porta dell’armadio si spalancò e, ai primi istanti di paura, seguì il sollievo per aver davanti a sé solo Wilson e House. “Dobbiamo sbrigarci.” disse il primo.
Elliot ricominciò a dimenarsi, con ancora più forza.
Rapidamente, House estrasse una siringa da chissà dove, e fece una puntura al ragazzo, sotto gli occhi sconvolti di Foreman, Wilson e di Elliot stesso.
“Ma cosa fai?!” chiese il neurologo al suo capo.
“Ti evito una denuncia per pedofilia.” rispose questi secco. “Forza, prendetelo e usciamo da qui prima che torni il poliziotto.”
Il ragazzino giaceva inerme tra le braccia del neurologo: House gli aveva iniettato una bella dose di sedativo.
Lo sollevò, prendendolo in braccio e, sperando di non dare troppo nell’occhio, si diressero verso l’ufficio di House.

Chase vide uscire i suoi colleghi dalla stanza della Pivet: Foreman teneva in braccio Elliot, che sembrava addormentato.
Cambiò l’immagine dello schermo, passando alla telecamere che riprendeva Cameron e il poliziotto: il loro caffè era finito da un pezzo, ma erano ancora seduti a parlare fittamente. Non poteva sentire quello che dicevano, ma dalle loro espressioni sembrava stessero discutendo di qualcosa di molto importante. Ad un certo punto, vide avvicinarsi lentamente a loro un’altra figura, che riconobbe essere l’altro agente.
Entrambi si voltarono verso di lui e lo guardarono spaesati. Chase notò l’espressione sul volto di Cameron, che passò dalla perplessità alla consapevolezza, in pochi secondi; sembrò capire che il piano aveva funzionato, e sembrò sollevata.
Chase spense il monitor e si avviò, anche lui, verso l’ufficio del suo capo.

31 gennaio, h 19.00
Ufficio di House

Elliot giaceva su un letto improvvisato con delle lenzuola rubate chissà dove e qualche sedia. Avevano spostato la macchina del caffè e l’avevano nascosto là dietro. Per sicurezza, House aveva anche chiuso le persiane.
“Ora dovremmo essere al sicuro.” concluse Wilson, quando fu tutto pronto.
Chase entrò in sala equipe. “Dov’è Cameron?” fu la prima cosa che House gli chiese.
“Nell’area ristoro, con tutti e due i poliziotti. Uno è decisamente sotto shock. Cameron sembra aver capito che può smettere di fare la carina con loro, tra poco ci raggiungerà.” rispose al suo capo.
“Come ti è sembrata?” insistette lui.
“Fantastica! Magari tra lei e quel poliziotto è nato veramente qualcosa! Sembravano stare bene assieme.” Chase si rese conto di quanto falsa fosse la frase che aveva appena pronunciato, ma fu un leggero desiderio di vendetta a spingerlo a farlo, e sapeva che questo ad House avrebbe fatto male.
Infatti lui sembrò essere colpito dalle sue parole, e rifletté qualche secondo prima di ricominciare a parlare.
“Bene. Chase e Foreman, voglio tutti gli esami mancanti sul ragazzo e un’analisi di quella placenta.” Si voltò verso l’oncologo. “Tu vai dalla Cuddy e tranquillizzala un po’.” gli disse, con un sorriso malizioso.
Wilson aspettò che gli altri due medici lasciassero la stanza, per andare a prendere una barella con cui trasportare Elliot, e si rivolse all’amico: “Non credi sia meglio chiamare Cameron e dirle di tornare qui? Magari non ha capito che il gioco è finito…”
“O magari si sta divertendo e non vuole smettere di giocare.” replicò House. Dal suo tono di voce, Wilson capì che quella prospettiva lo preoccupava, e non poco.
“Certo, c’è anche quella possibilità.” Decise di non rassicurare l’amico, forse quel po’ di gelosia avrebbe smosso un minimo la situazione. “Ma chiamala, dai.” Sollevò la cornetta del telefono, porgendola al diagnosta.
Questo la guardò qualche istante, poi scosse la testa. “Farò di meglio: vado a prenderla. Al telefono potrei solo parlarci; quando si tratta di me e Cameron, le parole è meglio tenersele per sè.”
Wilson guardò meravigliato House che lasciava, zoppicando, il suo ufficio.
“Me e Cameron?!” pensò. Altro che progressi…questo era un miracolo!

 
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17fede
view post Posted on 2/1/2007, 12:28




Ohhh!!! Ma è stupenda!!! Ma come ti è venuta in mente una storia del genere?? é fantastica...magari sei stata un ex agente dell'FBI...chi lo sa??? :P Continuala davvero...se hai un altro pezzo lo posti entro oggi?? Ti pregooooooooo ^_^ :cry:
 
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°vally°
view post Posted on 2/1/2007, 13:01




Mi dispiace, ho finito di scrivere il capitolo stamattina e tra mezz'ora parto...aggiornerò tra una settimana!
Grazie x i complimenti, a presto!!!
 
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17fede
view post Posted on 3/1/2007, 11:44




va bene -_- :( aspetterò una settimana...cmq buon viaggio!!!
 
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35 replies since 29/11/2006, 00:01   864 views
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