It's in the pills that bring you down...

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°vally°
view post Posted on 9/1/2007, 18:54




CAPITOLO 16

31 gennaio, h 18.55
Area ristoro del Princeton Plaisboro Teaching Hospital

“Ma cosa ci fai qui?!” esclamò l’agente Spender, quando il collega li raggiunse alle macchinette del caffè.
L’altro poliziotto non rispose, guardandoli spaesato.
“Ehi, Jack! Dobbiamo controllare quella donna, non possiamo andarcene a spasso tutti e due! Sono via da neanche mezz’ora! Lasciami ancora qualche minuto.”
Cameron intuì che se il poliziotto si trovava lì con loro in quel momento, era perché Elliot l’aveva convinto a lasciare il suo posto di guardia: forse l’enorme sacrificio che aveva fatto organizzando quella scenetta sarebbe valsa a qualcosa.
“Jack, ci sei?!” l’agente Spender si alzò e si avvicinò al collega. “Sono venuto a bere un caffè.” rispose questo, con uno strano tono di voce cantilenante. “Sono stanco e potrei non svolgere bene il mio lavoro. Ho bisogno di un caffè per svegliarmi un po’.”
Cameron osservava l’uomo con un misto di timore e curiosità: era decisamente fuori controllo, ripeteva parole che gli erano state dette poco prima, senza neanche rendersene conto.
“Ma stai bene?” Spender incominciò ad accorgersi che c’era qualcosa che non andava.
Jack annuì, avvicinandosi ulteriormente alla macchinetta del caffè. “Devo prendermi un caffè perché sono stanco e potrei non svolgere bene il mio lavoro.” ripeté per la seconda volta in pochi secondi.
L’agente Spender si voltò verso Cameron. “Ma cos’ha? Sembra sotto shock.”
“Forse è davvero stanco e ha bisogno solo di un caffè.” rispose lei, alzandosi. Nel caso avessero poi scoperto che il poliziotto era stato ipnotizzato, voleva essere sicura che non sospettassero del fatto che lei sapeva il rischio che correva o che,addirittura, avesse contribuito a far cadere il poliziotto nella trappola del ragazzo.
Jack, nel frattempo, tastava invano i bottoni della macchinetta.
“Qualcuno si è dimenticato di dirle che deve mettere delle monetine nella fessura, per avere il suo caffè?” House spuntò alle loro spalle.
“Lasci perdere dottore, è solo un po’ confuso.Turni di guardia così lunghi sono snervanti.” l’agente Spender si avvicinò al collega, mise i soldi nella fessura e premette il tasto corretto. “Ora ti bevi questo caffè e te ne torni alla camera della donna, ok Jack? Io devo finire di parlare con Ally.” dette una pacca sulla spalla del collega e si avvicinò a Cameron, mettendole un braccio intorno alle spalle e sorridendole.
Lei fu presa alla sprovvista e rimase immobile, tesa, sperando che quell’abbraccio terminasse il prima possibile. Quel gesto di confidenza le fece provare ancora più disgusto per quell’uomo, ma il primo istinto che ebbe fu quello di sfogarsi contro House, che li guardava impassibile, fermo davanti a loro, e che era la causa primaria di quell’imbarazzante situazione.
Sperava che House la cavasse fuori da quell’impiccio richiamandola per questioni di lavoro, e temeva, allo stesso tempo, di essere messa ancora più in imbarazzo da qualche battuta sarcastica delle sue.
Quello che invece il suo capo fece, lei proprio non se l’aspettava: alzò il suo bastone e lo puntò alla spalla del poliziotto, allontanandolo con una spinta da lei.
“Ma cosa diavolo fa, è impazzito?!” l’agente Spender si stupì dell’aggressività di quel gesto: non era certo il tipo di affronto che si aspettava da quello scorbutico medico zoppo.
“Si prenda questo rimbambito del suo collega e tornate a fare il vostro lavoro. Lei deve tornare a fare il suo.” disse House autoritario, indicando con un gesto del capo Cameron.
“Dottore, le lasci ancora qualche minuto di pausa, ci sono un sacco di medici ad occuparsi di quella donna, lasciate a questa povera ragazza un po’ di respiro!” l’agente Spender tornò all’attacco, rimettendo il braccio intorno alle spalle di Cameron e rivolgendo ad House un’accattivante sorriso.
L’immunologa guardava il suo capo, curiosa di vedere la sua reazione.
House pensò che era già nei guai con la Cuddy e tanto valeva aggiungere alla lunga lista di denunce una per aggressione a pubblico ufficiale: gli mancava. Sollevò il bastone e spinse ancora il poliziotto lontano da lei, questa vola in modo più deciso.
“Ok, ok.” disse Spender ridendo, e alzando le mani in segno di scusa. “Le lascio il bocconcino più appetitoso della sua equipe.” poi si rivolse a Cameron: “Pensavo che avessi una storiella col biondino prestante che ti abbracciava poco fa, non con questo psicopatico bellicoso. Comunque sia, non venire più a parlare a me di fedeltà e di correttezza, fatti un esame di coscienza prima.”
Cameron sentì lo sguardo del poliziotto su di lei, carico di disprezzo, e nonostante il sentimento fosse reciproco, ne fu ferita.
Spender prese per un braccio il collega, che era rimasto ad osservare la scena in insolito silenzio, e si volse ancora verso House. “Le è andata bene, poteva beccarsi una denuncia per aggressione, o finire in una rissa con due uomini decisamente più forti di lei. Ringrazi la sua buona stella che sono un tipo tranquillo.”
“Se non tornate subito a fare il vostro lavoro chiamo mammina Cuddy e faccio dire a papino Dereck di togliervi le munizioni dai giocattoli.” ribatté House, scimmiottandolo.
“Lei è completamente suonato.” bofonchiò Spender e, trascinandosi dietro il collega, sparì lungo il corridoio.
Cameron si portò le mani ai fianchi, guardandolo. “Bhe?” gli chiese.
“C’è bisogno di te, abbiamo preso Giucas Casella.”
“Non giustifica il tuo comportamento di poco fa.”
House la squadrò: mani sui fianchi, testa leggermente inclinata, uno sguardo di sfida negli occhi. Poi i suoi capelli, che si ribellavano alla presa del mollettone e le cadevano prepotenti sulla fronte e sul collo. Gli venne una gran voglia di toccarli.
“Pensavo fossi in difficoltà, volevo solo liberarti da una situazione sgradevole.” mentì.
“C’è modo e modo. Bastava il cercapersone.” Cameron era decisa a non lasciar cadere il discorso. Quella scenata, forse un po’ infantile, era per lei un tentativo di House di comunicarle qualcosa, che non voleva lasciarsi scappare. Anche a costo di passare per arrogante e presuntuosa, anche a costo di scoprire che era tutto nella sua testa.
“Il biondino prestante ha detto che sembravi particolarmente coinvolta in una conversazione con quell’idiota munito di pistola, e avevo un bisogno urgente di te.” Quell’urgente lo calcò in modo particolare, e a Cameron vennero i brividi. “Volevo essere sicuro che corressi al lavoro.”
“Stavo cercando di tenerlo occupato il più a lungo possibile, come mi hai ordinato.” Sottolineò le ultime parole, protendendosi verso di lui “Il tuo intervento ha rischiato di creare un casino più grosso di quello in cui ci troviamo già, e lo sai. Perché lo hai fatto?” insistette Cameron.
“Andiamo.” House tentò di troncare una discussione che sarebbe degenerata, e si diresse all’ascensore.
L’immunologa lo osservò allontanarsi, ma quando si voltò verso di lei, fu come se l’agganciasse con i suoi occhi, obbligandola a seguirlo.
Così fece, cercando di pensare a un modo di rompere quel muro di ghiaccio che li divideva. Aveva bisogno di farlo perché il ghiaccio è gelido e robusto, ma è anche trasparente: vedeva il sentimento e il calore che c’erano dietro, imprigionati, e sentiva che non poteva lasciarli lì. Doveva liberarli, doveva farlo per sé stessa, prima di tutto. Se avesse soffocato un’altra volta i suoi sentimenti sarebbe andata meglio forse per un po’, ma poi sarebbe ricominciato tutto: il cuore che batteva, lo sfarfallio nello stomaco, gli sbalzi d’umore, i pianti soffocati dal cuscino e la rabbia verso se stessa.
Riuscire ad avvicinarsi a lui, superando l’ostacolo delle sue battute acide e del suo cinismo estremo, era l’unico modo di spezzare quel circolo vizioso; sarebbero stati bene, o sarebbe stato un disastro, questo non poteva prevederlo. Ma aveva bisogno di toccare il cuore di House, solo per un momento, solo per vedere cosa succedeva ad entrambi.
Il “din” dell’ascensore la distolse dai proprio pensieri.
Entrarono senza dire una parola.
House la osservava con la coda dell’occhio: si aspettava di vederla ripartire all’attacco da un momento all’altro, e non voleva essere preso di sorpresa. Aveva cercato lui quella situazione, un confronto, e ora lo temeva, così come allo stesso tempo la desiderava: quel coinvolgimento emotivo lo stordiva.
Appena le porte dell’ascensore si chiusero, i loro sguardi si incontrarono.
Cameron sospirò, portando una mano dietro la schiena.
Afferrò saldamente il bottone di stop e, cercando di non pensare a quello che avrebbe dovuto fare dopo, lo tirò con decisione.
L’ascensore si fermò di colpo, facendoli sobbalzare entrambi.
Lo sguardo sorpreso di House passò rapidamente dalla mano di lei, posata ancora, colpevole, su quel grosso bottone rosso, al suo viso: la serietà di quei occhi lo disorientò.
Il lato infantile di Cameron, che lui prendeva tanto in giro, e che la rendeva familiare e prevedibile, era rimasto fuori da quella manciata di metri quadrati in cui erano chiusi insieme.
Il rimanere solo, con quel lato ignoto di lei che lo attirava tanto, gli fece provare una deliziosa paura.

31 gennaio, h 19.10
Ufficio della Cuddy

Wilson bussò e, nonostante nessuno rispose dall’altra parte della porta, decise di entrare.
La Cuddy era seduta alla sua scrivania, il viso nascosto dalle mani, immobile.
“Lisa…” disse l’oncologo in un soffio, avvicinandosi a lei rapidamente.
Visti i precedenti, ebbe l’accuratezza di far fare prima un giro alla chiave della porta.
Prese una sedia e la portò vicino a lei, dietro la scrivania.
La Cuddy stava piangendo sommessamente, ma senza sosta.
Le mise un braccio dietro alle spalle e l’avvicinò a sé. Lei lo lasciò fare, senza smettere di piangere.
“Cos’è successo?” le chiese, conoscendo già la risposta.
“Mio padre…” riuscì a dire lei, separandosi da Wilson.
Si guardarono qualche secondo, entrambi non sapevano cosa dire.
Lisa era sconvolta, il viso rigato dalle lacrime, le mani che le tremavano leggermente: Wilson non l’aveva mai vista così…fragile.
Ebbe voglia di stringerla ancora, di tenerla accanto a sé per proteggerla da quel dolore, ma si trattenne: temeva che lei interpretasse il suo gesto come dettato dalla pena, mentre in realtà era ben altro. Ma aveva paura a dirlo.
“Mi dispiace.” si sentì un idiota; era tutto quello che riusciva a dire!?
Lei annuì confusamente. “Forse è meglio che stia un po’ sola.”
Wilson obbedì, alzandosi. Poi però cambiò idea, e tornò sui suoi passi.
Si sedette ancora accanto a lei e le prese la mano. “Sto qui con te.”
Un accenno di sorriso, tra le lacrime di dolore del suo capo, bastarono per fargli capire che forse, per una volta nella vita, aveva fatto la cosa migliore che poteva fare.

31 gennaio, h 19.10
Ascensore del Princeton Plaisboro Teaching Hospital

Era stato un gesto coraggioso, quello di tirare quel bottone, un gesto che aveva stupito più lei stessa che House.
Un effetto rilevante lo doveva aver avuto anche su di lui: per una volta, da tutto il tempo che lavoravano insieme, House non aveva commentato, ma era rimasto in religioso silenzio ad osservarla, la bocca leggermente aperta.
Cameron si rese conto che doveva spiegare in qualche modo il suo gesto.
“Quella di poco fa era una scenata di gelosia.” disse, cercando di sembrare più sicura e decisa possibile.
“Può essere.”
Si aspettava tutto, tranne un’ammissione del genere, da lui.
Disorientata, abbassò lo sguardo.
“Questo invece cos’è?” le chiese House.
Cameron aveva ancora la mano su quel bottone, e pensò che un’ottima soluzione sarebbe stato premerlo, e fuggire da lì.
Avrebbe però distrutto tutto quello per cui aveva lavorato in quei giorni.
Sciolse faticosamente la presa dal bottone, e si avvicinò a lui.
I suoi occhi blu non le si staccarono di dosso neanche per un istante, sentì che la stavano studiando, che cercavano di penetrare nella sua testa. Questo le impediva di pensare, e non poteva permetterselo. Per una volta voleva essere lei ad avere il controllo della situazione.
Senza neanche rendersene conto gli fu davanti, le mani sulle sue spalle, le labbra premute sulle sue. Chiuse gli occhi.
House rimase immobile, divertito e incuriosito da quel bacio leggero e improvviso.
Quando Cameron riaprì gli occhi, e si trovò quelli di House così vicini, spalancati, che non avevano smesso nemmeno per un secondo di osservarla, vacillò.
Lui non aveva risposto al suo bacio, ma non l’aveva neanche respinta.
“Sei testarda.” le disse.
“Anche tu. Ti ostini a tenermi lontana da te…”
Le loro frasi erano sussurrate; le loro bocche erano a pochi centimetri di distanza ed entrambi ebbero ancora la sensazione che parole e corpi si comunicavano cose completamente diverse.
Come a confermare queste sensazioni, House si piegò su di lei e la baciò a sua volta. Fu un bacio sfuggente, che Cameron non ebbe il tempo di assaporare.
“Due pari.” disse lui, con un’espressione ironica.
Tra di loro sempre pochi centimetri, e la tensione rendeva quegli invisibili atomi, danzanti di elettricità.
Lei sorrise a sua volta, un sorriso aperto, decisamente diverso da quello ambiguo del diagnosta.
“…o ad avvicinarti in modo imprevedibile. Continui a giocare con me.”
“Non sembra che il gioco ti dispiaccia.”
“La novità non è che a me non dispiace, ma che te non puoi più farne a meno.”
La sicurezza negli occhi di Cameron lo contagiò: in effetti era l’unica cosa che, insieme al suo lavoro, lo faceva divertire e lo emozionava.
In quel momento però, quelle sensazioni forti non lo spaventarono. Averla così vicino, vederla rapita dai suoi occhi, gli permise di lasciarsi andare, pensando che il dolore della separazione non sarebbe mai arrivato.
“Quindi?” House ruppe il silenzio con quell’inutile domanda.
Il sorriso di Cameron non scemò, e si dischiuse solo nell’ennesimo bacio.
Questa volta però, House lasciò andare il bastone, che cadde con un tonfo sordo sul pavimento metallico, e le cinse la vita sottile, tirandola verso di sé.
Quel contatto fu liberatorio per l’immunologa che, col cuore che batteva all’impazzata, gli fece passare le mani dietro al collo e si sollevò ancora di più sulle punte dei piedi, stringendosi a lui.
Non voleva perdere neanche un istante di quel bellissimo momento, e assaporò ogni movimento delle labbra di House sulle sue, e delle sue mani sul suo corpo.
Una, lentamente, passo dalla sua vita lungo la schiena, perdendosi nei suoi capelli.
Non immaginava quanto fosse importante per House toccarglieli, come tante volte aveva desiderato.
La delicatezza di quel loro momento insieme, sorprese tutti e due.
Passarono pochi interminabili minuti, in cui non smisero di baciarsi, entrambi tenendo serrati gli occhi, forse per paura di scorgere nello sguardo dell’altro, qualcosa che assomigliasse al dubbio.
Ma quando House ebbe finalmente il coraggio di aprirli, e si separò lentamente da lei, quello che vide fu solo un sorriso sincero e un’espressione adorante; era raggiante, era felice. Che lo fosse anche lui?

31 gennaio, h 19.15
Princeton Plaisboro Teaching Hospital

Foreman si stava occupando di Elliot, Chase del pezzo di placenta che avevano trovato.
Quest’ultimo era in laboratorio, lo sguardo fisso sullo schermo del computer, dove sarebbero tra breve apparsi i risultati delle analisi.
Non stava bene.
La testa gli pulsava e aveva nausea. Forse erano le conseguenze dell’ipnosi, malessere che veniva dalla sua mente, non dal suo corpo. Psicosomatico.
Come medico avrebbe dovuto essere immune a questo genere di disturbi, avrebbe dovuto razionalizzare e liberarsene, ma non ne era in grado.
Gli capitava spesso, quando stava male nell’animo, di avere problemi fisici, così come gli capitava di credere nei miracoli e nella fede.
Tutte cose che difficilmente trovava nei suoi colleghi. Ma lui non era un medico fino in fondo, lo era solo a metà. Non sapeva bene perché ma aveva sempre avuto questa fastidiosa sensazione, insieme alla convinzione che tutti intorno a lui se ne accorgessero.
Scosse la testa, cercando di scacciare quegli scomodi pensieri, e si concentrò sui dati che stavano apparendo davanti a lui.
Si aspettava di non trovare nulla di strano, com’era stato per il precedente campione, preso da Foreman a casa della Pivet.
Questa volta invece trovò qualcosa: i valori della materia organica erano tutti sballati.
Prelevò un campione della placenta e preparò il microscopio: dai tanti casi strani che aveva affrontato da quando lavorava con House, aveva imparato che osservare ad occhio nudo da un vecchio modello di microscopio, poteva a volte esser meglio di tutte le analisi approfondite che si potevano svolgere con gli strumenti avanzati del Plaisboro.
Infatti lo vide: un parassita.
Non aveva mai visto niente di simile; era evidente che era un parassita, ma non lo conosceva.
Probabilmente House si aspettava di trovare qualcosa di simile, era difficile sorprenderlo.
Decise comunque di avvisare subito i colleghi.

31 gennaio, h 19.15
Ascensore del Princeton Plaisboro Teaching Hospital

“Tutto bene?” lo sguardo fisso di House e il suo silenzio, dopo un abbondante minuto, incominciarono a preoccupare la dottoressa.
Lui, in risposta, distolse gli occhi da lei, e si piegò a raccogliere il suo bastone.
Cameron non se la sentiva di affrontare il suo sarcasmo che si ripresentava puntuale dopo quei momenti; sperò che questa volta sarebbe stato diverso.
Quando House si alzò, e lei poté vedere l’espressione serena sul suo viso e un’insolita tranquillità nei suoi modi, capì che da quel giorno, forse, sarebbe stato tutto più semplice.
“Ogni volta che vuoi baciare qualcuno fai così? Lo inchiodi al muro o lo chiudi in un ascensore con te?!”
Come non detto…
“Ottima tecnica. Punti sull’effetto sorpresa! Nessuno si aspetterebbe dalla dolce e pacata Cameron un gesto del genere.”
Cameron incrociò le braccia, e si guardò le scarpe, un po’ demoralizzata. Una domanda le passò rapidamente per la testa: chi aveva messo in giro la notizia dell’avventura tra lei e Chase, con tanto di particolari? Bhè, tenendo conto che lei non ne aveva parlato con nessuno…
“Mi spieghi cosa hai detto a quel poliziotto per fargli passare ogni impulso aggressivo?”
La dottoressa tornò a guardarlo, avvilita dal comportamento di House, che sembrava tornare, come al solito, rapidamente sui suoi passi.
Il diagnosta lesse lo sconforto negli occhi di lei, e invece di esserne irritato, come accadeva abitualmente, ne fu terribilmente intenerito. Alzò una mano e le accarezzò la guancia. “Sto scherzando.” disse, sorridendole.
Lei sembro rincuorata da quella semplice carezza.
Improvvisamente, l’ascensore riprese a muoversi.
Entrambi si guardarono attorno, finché le porte non si aprirono sul corridoio. Un ometto in tuta da lavoro li guardò perplesso.
“Siete liberi.” disse sorridendo, anche se intuì che sarebbero rimasti volentieri là dentro ancora un po’.
“Non sa quanto le sono grato!” disse House con eccessivo trasporto, passandogli accanto “Questa donna è una mantide religiosa…stava per mangiarmi!”.
L’uomo della manutenzione posò gli occhi su Cameron, che rosse in viso e chiaramente imbarazzata, sembrava tutt’altro che una minaccia.
Scosse la testa e, fatto un cenno di saluto a quella strana coppia, sparì tra le porte dell’ascensore.

Il cellulare di House squillò.
“Rispondi tu.” disse, passandolo a Cameron.
Lei osservò la parola Australian lampeggiare sul display e, alzando gli occhi al cielo, aprì lo sportellino.
“Cameron.”
Ci fu un istante di silenzio dall’altra parte della cornetta, poi Chase parlò senza esitazione.
“Ho trovato qualcosa nella placenta che Elliot stava portando alla Pivet.”
“Che cosa?”
“Un parassita.”
“Che genere di parassita?”
La conversazione aveva evidentemente attratto l’attenzione di House che, senza tante cerimonie, strappò di mano il telefono alla dottoressa.
“Non credo tu lo conosca.” disse a Chase.
“Infatti non l’ho mai visto. Se sapevi cosa andavo a cercare, potevi anche parlarmene.”
“Non so neanche io cos’è. O almeno credo…devo vederlo per sicurezza.”
“Ti aspettavi che trovassimo un parassita sconosciuto?!”
“No, mi aspettavo che trovassimo un parassita che noi non conosciamo, perché di solito lavoriamo con gente sopravvissuta alla nascita.”
“Cosa vuoi dire?” Chase incominciava ad essere confuso, e il mal di testa pulsante non lo aiutava di certo a stare dietro al delirio del suo capo.
“Ti raggiungiamo in laboratorio.” disse House, riattaccando.
Si voltò verso Cameron, che lo guardava con aria interrogativa.
“Un parassita. Come avevamo ipotizzato.”
Lei annuì.
“Passiamo dalla Cuddy a prendere una cosa, poi raggiungiamo Chase in laboratorio.” Detto questo si avviò verso l’ufficio del suo capo, mentre Cameron camminava dietro di lui, tentando di mettere insieme i pezzi di quell’intricato puzzle che era la mente del suo adorato House.
 
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darkLady!!!
view post Posted on 10/1/2007, 13:28




Fantasticaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!!!!!Non è necessario scrivere altro!!!!
 
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°vally°
view post Posted on 13/1/2007, 02:18




CAPITOLO 17

31 gennaio, h 19.20
Ufficio della Cuddy

Qualcuno bussò alla porta, dopo aver abbassato la maniglia invano.
Wilson guardò tra le persiane.
“E’ House.” disse, rivolto alla Cuddy.
Lei si asciugò gli occhi nervosamente, col dorso della mano.
“Fallo entrare.” ordinò all’oncologo, sperando di essere presentabile.
L’ultima cosa che avrebbe potuto sopportare in quel momento era qualche sarcastica battuta del più impegnativo dei suoi medici.
Wilson girò la chiave e aprì la porta, incontrando lo sguardo perplesso di House e Cameron.
“Abbiamo interrotto qualcosa?” chiese lei.
“Entrate.” Wilson incrociò lo sguardo di House e ci lesse qualcosa di…non riusciva a definirlo in nessun’altro modo se non “insolito”.
“Ti permette di fare sesso con lei in ufficio? Allora è una cosa seria! Questo posto è sacro per la regina del Plaisboro…” le ultime parole gli morirono in bocca, quando i suoi occhi si posarono sul viso distrutto della Cuddy. “E’…colpa mia?”.
Aveva umiliato e maltrattato la Cuddy diverse volte, e lei più volte si era arrabbiata, gli aveva urlato dietro e si era vendicata. La discussione di poco prima nel suo ufficio era sicuramente un buon motivo per fargli passare qualche giorno chiuso in ambulatorio, ma addirittura piangere…
“Non sei il centro del mio mondo House.” rispose lei acida, alzandosi e avvicinandosi a loro.“Cosa vuoi ancora?”
“Lisa…stai bene?” Cameron si rese conto che doveva essere successo qualcosa di grave per ridurre in quello stato la Cuddy.
“Dille di no, se vuoi regalarle qualche momento di piacere estremo. Ma aspetta che io esca di qui, si creerebbe una scenetta patetica che mi farebbe venire il volta stomaco.” House si diresse verso la fornitissima libreria addossata alla parete dell’ufficio. “A meno che non vogliate abbracciarvi, baciarvi, o qualcosa di simile. In quel caso rimango!”
“Mi dici perché sei qui?” l’impazienza nella voce della Cuddy e il suo leggero tremore, fecero capire a Wilson che non avrebbe trattenuto a lungo le lacrime, e che voleva liberarsi dei due ospiti nel più breve tempo possibile.
“Mi serve un libro…” rispose distrattamente House, incominciando a scorrere i titoli dei testi.
“Cameron vieni a darmi una mano. Tanto non ti butterà addosso i suoi dispiaceri, non è tipo. Dopo ti lascio un po’ sola con Chase, quel bambino l’ha sconvolto e tra breve crollerà. La madre morta alcolizzata, il papà che lo ha abbandonato…vedi come ti diverti!”
La dottoressa si avvicinò a lui, e lo fulminò con lo sguardo.
“Hai visto? Non sono un tipo geloso.” mormorò il diagnosta, ma la sua attenzione era ormai concentrata interamente su un grosso volume incastrato sotto diversi libri.
“Cosa stai cercando?” Wilson si avvicinò agli altri due medici, sperando di affrettare la loro uscita di scena.
“Trovato!” House afferrò saldamente il tomo e tirò con forza. Come aveva previsto, gli altri libri caddero rovinosamente a terra, facendo una gran baccano.
“Hai un’assistente, o qualcosa del genere vero? Fai mettere a posto a lei.” House si avviò svelto verso l’uscita, facendo gesto a Cameron di seguirlo.
Arrivato alla porta però si voltò di scatto. “Ma non mi dici niente? Non urli? Non mi minacci?Sai che ho bisogno di certe attenzioni io…” disse esasperato, rivolto alla Cuddy.
Wilson si voltò a guardarla, preoccupato. Si rendeva conto che in un momento come quello, House non era la persona migliore da avere attorno.
“E’ morto mio padre, l’ho saputo pochi minuti fa.” Lisa fece un grande sforzo per pronunciare queste parole, che spiegavano tutto e nello stesso tempo niente.
House abbassò lo sguardo; sapeva che suo papà era malato, avrebbe dovuto capire quello che era successo appena entrato in quella stanza. Quei minuti in ascensore gli avevano confuso i sensi, e il suo acuto spirito d’osservazione era temporaneamente fuori uso.
Cameron rimase immobile, senza dire niente. Fosse stata in un’altra situazione avrebbe avuto per lei qualche parola di conforto, forse l’avrebbe abbracciata. Ma temeva il giudizio di House, e non voleva ispirare qualche battuta delle sue, che avrebbe potuto ferire ulteriormente la Cuddy.
“Bhè, allora pensaci tu. Fare un po’ d’ordine qui dentro potrebbe essere un buon modo per distrarti.” House non riuscì a guardarla negli occhi, ma posò lo sguardo per qualche istante in quelli di Wilson. “Occupati di lei.” voleva dirgli.
Sentì con sicurezza che l’amico aveva colto il messaggio.
Lasciò la stanza, rendendosi conto solo a qualche metro dall’ufficio, che stava tenendo Cameron per mano. L’aveva tirata dietro di sé, quando si era accorto che era rimasta impietrita a fissare la Cuddy.
“Ti sembra una cosa da dire in questi momenti?” chiese l’immunologa, sciogliendo la presa, e guardandolo indignata.
Sentì ancora quel moto di tenerezza nei suoi confronti. Quei comportamenti che prima lo irritavano, ora gli facevano venire voglia di baciarla e di stringerla; era decisamente nei guai.
“Mi sono reso conto che la reazione migliore è stata la tua, ma non volevo fregarti l’idea. E’ tuo il copyright sul rimanere imbambolati a fissare le persone.”
“Non…”
“Andiamo in laboratorio.”

31 gennaio, h 19.25
Laboratorio del Princeton Plaisboro Teaching Hospital

Chase era assorto nei suoi pensieri, gli occhi al microscopio, cercando di identificare quello strano parassita. Gli ricordava qualcosa, ma non sapeva dove l’aveva già visto. Forse durante i primi anni di medicina…
Il tonfo sordo fatto dal grosso libro che House lanciò in malo modo sul tavolo accanto a lui, lo fece sobbalzare.
“Scusa non volevo spaventarti.” scosse la testa “Non riesco proprio a mentire…volevo decisamente spaventarti!”
“E ci sei riuscito.” disse Chase, buttando l’occhio sulla copertina del libro. “Patologie pre-natali? A cosa ci serve?”
“A identificare quel parassita.” House si avvicinò al microscopio. “Ahhh…sono troppo vecchio. Cameron prova tu.”
Anche la dottoressa osservò il parassita. “E’ insolito ma…mi è familiare.”
“Già, primo o secondo anno di medicina. Parassiti che possono uccidere ma…un feto. Se ce l’hai, non arrivi neanche alla nascita. Nella placenta però si può trovare qualche sua traccia…”
“Ma sei sicuro?” Cameron lo guardava perplessa.
“No! Per questo che ci serve questo libro. Dobbiamo identificare il parassita e le sue proprietà. Sono sicuro che qui c’è.”
“Ma ci sono elencati...quasi cento parassiti” Chase sfogliò rapidamente l’indice.
“Bene. 15 secondi a parassita fanno…” House ragionò per qualche istante “…25 minuti! E siete anche in due, pensate che fortuna! Cameron, confronta la foto con l’immagine al microscopio, Chase scorri rapidamente i sintomi che può provocare. Tutto ciò che riguarda convulsioni, paralisi e problemi motori in generale, così come arresto respiratorio dato da paralisi polmonare, ci riguardano.” Sollevò il volume e lo lasciò cadere tra le braccia di Cameron, che per poco non cadde sotto quel grosso peso. “Ci vediamo tra massimo 25 minuti in ufficio. Buon divertimento!”
Sotto gli occhi sbalorditi dei due medici, House lasciò il laboratorio senza aggiungere una parola.

31 gennaio, h 19.30
Ufficio di House

“Ti stavo cercando.” Foreman andò incontro ad House, appena questo varcò la soglia del suo ufficio.
“Anch’io. Non sai quanto sono contento di vederti…”
“Cosa?!”
“Lascia perdere. Ti avevo scambiato per il mio spirito guida. E’ un santone africano morto qualche secolo fa…” House non aveva mai capito a pieno il perché, ma Foreman aveva la capacità di tirarlo coi piedi per terra in pochi secondi, e ora ne aveva proprio bisogno. “Ci sono novità?” chiese, cambiando discorso.
“Eccome!” l’entusiasmo del neurologo per quel caso lo contagiò immediatamente.
House si complimentò mentalmente con se stesso per averlo assunto, e non era la prima volta che lo faceva.
“Dov’è il ragazzino?”
“Lì.” Foreman indicò un ammasso di lenzuola nascoste dietro ad alcune sedie “Gli ho fatto un’altra dose di sedativo, ma non dormirà ancora a lungo.”
Un’altra dose di sedativo a un bambino? Senza farsi venire sensi di colpa? Si, senza dubbio: lo adorava!
“Ho trovato qualcosa: un parassita. Non sono riuscito ad identificarlo però…”
“Ci stanno pensando i tuoi fratellini.”
“Sapevi del parassita?”
“Chase ne ha trovata una colonia nel campione di placenta che ha analizzato.”
“Cos’è?”
“Non lo sappiamo ancora. Chase e Cameron stanno facendo una ricerca bibliografica. Sai, come alle elementari…” guardò l’orologio. “Tra massimo un quarto d’ora saranno qui.”
Il neurologo annuì, pensieroso.
“Ah! Una cosa importante.” Foreman si illuminò. “Non è vero che il braccio è paralizzato da anni…è solo qualche mese.”
“Come l’hai scoperto?”
“Gli ho fatto qualche domanda tra una dose di sedativo e l’altra. E’ stato molto collaborativo, non credo abbia mentito. Non era molto lucido…”
Torchiare il ragazzino sfruttando gli strascichi narcotici del periodo post-sedativo. Geniale…
Un sorriso appena percepibile si formò sulle labbra di House.
Sentiva che stava arrivando alla soluzione di questo caso; i pezzi del puzzle incominciavano a mettersi insieme.
“Aggiorniamo la lavagna” non vedeva l’ora di tornare a giocare un po’ coi suoi pennarelli.
“Già fatto.”
Ecco come perdere cento punti in pochi istanti.
House lo fulminò con lo sguardo, ma si trattenne dal dirgli cattiverie. Alla fine aveva fatto un buon lavoro.
“C’erano tanti elementi nuovi…ero qui a fare niente...” Foreman tentò di giustificarsi ma, vedendo che House non era andato oltre un’occhiataccia, lasciò perdere.
“Il parassita era morto. Questo può spiegare perché la malattia non è degenerata nel corpo di Elliot.”
House annuì.
“C’è un elemento che non torna però.”
“Meno male! Se spieghi tutto tu, io cosa faccio? Mi sentivo già un vuoto dentro…” House si massaggiò lo stomaco. Forse il vuoto veniva da lì, visto che non aveva mangiato. O era il cuore che aveva perso qualche battito quando Cameron aveva tirato quel bottone? Cercò di concentrarsi sul caso.
“Ho trovato anomalie nel flusso sanguigno del cervello di Elliot, come in quello di sua madre, ma qui limitate solo alla corteccia motoria.”
“Bene. Corteccia motoria, disturbo motorio. Più logico di così…” commentò House.
“Troppo logico, e troppo semplice. Le aree della corteccia che presentano anomalie in Elliot sono diverse da quelle danneggiate nel cervello della Pivet. Ma c’è un elemento in comune: cicatrizzazione nell’area di Broca.”
I due medici si guardarono per qualche secondo.
“Oddio, ma cosa sta succedendo? Ci siamo scambiati i cervelli?! Io ho detto una frase tua, tu una mia! Io non voglio risvegliarmi nel tuo corpo! E’…nero!”
Foreman spalancò gli occhi. “House, ma stai bene?”
Il diagnosta si passò una mano sulla fronte. “Si, ho solo bisogno di un caffè.” Si avvicinò alla macchinetta, guardandosi in giro. “Nella mia tazza! Voglio la mia tazza!”
Foreman abbassò lo sguardo, sperando che cambiasse in fretta discorso.
Questi sbalzi d’umore erano tipici di House, ma di solito passava da uno stato depressivo a uno aggressivo/sarcastico, e viceversa. Il suo lato isterico era una novità.
Lui rimaneva fermo nelle sue convinzioni… L’aveva visto perdere il controllo così solo in un periodo, ed era quello in cui era tornata Stacy. Ora Stacy era lontana, ma lui si era accorto di come il suo capo guardava Cameron, da quando aveva saputo della sua avventura con Chase…
“La vuoi finire di fissarmi?” il tono irritato di House distolse il neurologo dai suoi pensieri. “Beviamoci questo caffè, avremo bisogno di essere nel pieno delle forze quando il piccolo psicopatico si sveglia.”
Foreman incominciò a preparare il caffè, tenendo d’occhio House con la coda dell’occhio. C’era decisamente più di uno psicopatico in quella stanza…

Dopo pochi minuti, Chase e Cameron entrarono rapidamente in sala equipe.
L’immunologa reggeva a fatica l’enorme libro.
“Che cavaliere!” commentò House rivolto a Chase, mentre liberava la dottoressa dal grosso peso.
“Grazie.” mormorò lei, un po’ stupita da quel gesto gentile. Quando le loro mani si sfiorarono, percepì come una scossa elettrica.
House se ne accorse e ne fu felice.
Felice?!
Diciamo compiaciuto…
“Ah, scusami Allison.” ma Chase era concentrato su tutt’altro.
Elliot era seduto tra le lenzuola, e lo guardava in silenzio. I capelli scompigliati, la faccia stropicciata: sembrava un normale bambino appena svegliatosi.
“Avete scoperto cos’ha mia mamma?” domandò a bruciapelo, come se stesse continuando una conversazione iniziata in sogno.
“Tua mamma è morta.” disse House serio, catturando il suo sguardo.
Il bambino lo fissò, e lentamente un sorriso si fece largo sul suo viso. “Sta mentendo.”
“Sei un mostro.” ribatté il diagnosta, rispondendo al suo sorriso, con uno ancora più ambiguo.
Cameron aveva la pelle d’oca.
Foreman si avvicinò al ragazzo e gli prese il polso. “Ti senti debole o strano?”
“No dottor Foreman, sto bene.”
House si avvicinò ai due; il neurologo non si spostò, non si fidava a lasciare il ragazzo nelle sue mani: erano due soggetti pericolosi, ed il suo capo era più grosso.
House prese il giaccone di Foreman e glielo gettò addosso. “Facciamo lo stesso gioco che abbiamo fatto prima, quello dove io lavoro e tu stai sul balcone a guardare i fiocchi di neve che cadono, senza ipnotizzare nessuno.”
Questa volta Foreman non si sentì di replicare nulla. Rimasero tutti in silenzio mentre Elliot indossava il giubbotto e usciva sul terrazzo, accolto da una folata di vento gelido.
“Non so se è il caso…” tentò di protestare Cameron, ma si bloccò dopo aver incrociato gli occhi di Chase.
“E’ un barbone! E’ abituato! Anzi, magari si sente più a suo agio coi piedi congelati. Lo faccio per lui!” House e i sensi di colpa erano come due rette parallele, che non si sarebbero incrociate mai… “Allora?!”
“Pagina 2.149” Chase aprì il libro. “Iplexya crocorum.”
“Sembra una marca di crackers!”
“Invece è un raro parassita, che uccide il feto entro l’ottava settimana.” intervenne Cameron. “Attacca il cervello, si sposta rapidamente distruggendo la corteccia. Produce uova, che si diffondono attraverso il flusso sanguigno, rendendolo più denso.”
“Arriva al cervelletto?” chiese Foreman.
“Non sembra. Il feto non sopravvive che pochi giorni al suo attacco, probabilmente non fa in tempo ad arrivare fino lì.” Chase spostava nervosamente lo sguardo dal neurologo alla portafinestra che dava sul balcone.
House ci si avvicinò e chiuse le persiane.
“Se scappa ancora?!” chiese Chase.
“Da lì non va da nessuna parte. Ho chiuso a chiave l’ufficio di Wilson e l’unica altra via che ha è il cielo…dite che sa anche volare?”
“Direi di no.” tagliò corto Foreman. “Allora? Come mai il cervelletto della Pivet perde colpi così in fretta?”
Il diagnosta si mosse lentamente verso la lavagna e incominciò ad estrarre il suo yoyo dalla tasca della giacca.
Gli altri tre medici si scambiarono uno sguardo complice; House si stava mettendo al lavoro seriamente.
“Andate a farvi un giro.” disse come tra sé e sé.
Chase, Cameron e Foreman uscirono dalla stanza senza esitazione.

Appena loro lasciarono l’ufficio, House alzò gli occhi al soffitto e fece un bel respiro.
Si rimise lo yoyo in tasca e guardò distrattamente la lavagna: non ci riusciva.
Aveva là soluzione in testa, ma era frammentata, non riusciva a dargli forma. Tra un frammento di diagnosi e l’altro…Cameron.
Aveva appena fatto un test, l’aveva lasciata solo con Chase in laboratorio.
Il test non era per lei, era per se stesso, ed il risultato era stato fallimentare: gelosia.
Wow.
Era stato sincero con se stesso!
Doveva correre a dirlo a Wilson, sarebbe stato orgoglioso di lui.
Sentì bussare alla finestra.
Aprì di qualche centimetro. “Cosa vuoi?” chiese ad Elliot, in piedi di fronte a lui.
“La ama?”

House gli chiuse bruscamente la finestra in faccia.
 
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°vally°
view post Posted on 16/1/2007, 00:38




CAPITOLO 18

31 gennaio, h 20.10
Ufficio di House

Non si era calmato, ma tra uno strano pensiero e l’altro era riuscito a mettere insieme qualcosa che assomigliava a una soluzione. Ora veniva quel momento del suo lavoro che adorava: stupire la sua equipe, e qualunque altro spettatore fosse disponibile, con il racconto di come è arrivato alla diagnosi, fingendo che sia stata la cosa più semplice e naturale del mondo.
Temeva che questa volta però non sarebbe apparso così sicuro di sé: aveva ancora dei dubbi, e la diagnosi non era tutta sua…era stata Cameron la prima a parlare di parassiti.
Ma almeno ora sapeva da che parte incominciare ad agire.
Gli venne da sorridere: lei era veramente in gamba per essere così giovane e, cosa più importante, aveva quella giusta dose di umiltà e determinazione che le permettevano di imparare in fretta.
Era testarda, e vinceva.
Anche con lui aveva vinto.
Questo non significava che fosse stato lui a perdere, anzi…
Aveva ragione Wilson, non era una guerra.
L’ingresso di Cameron, seguita dagli altri due medici, lo distolse dai suoi pensieri.
Le sorrise.
Cameron non riconobbe in quel sorriso la solita ironia o la solita sfida. Era solo un sorriso dolce e sincero. Le venne volta di buttargli le braccia al collo, ma non era di certo il momento né il luogo. Era sicura che ci sarebbe stato tempo per tutto.
“Hai avuto l’illuminazione?” chiese Foreman.
“Certo, senza voi attorno i dilemmi si risolvono da soli nella mia testa.”
“Mi chiedo cosa ci hai assunto a fare…” replicò Chase.
“Una sorta di passatempo per rendere il lavoro più leggero.”
“Gentile come sempre…Elliot?” Chase si avvicinò alla finestra e aprì le persiane,
Il ragazzino era seduto per terra e stava leggendo il grosso libro che avevano utilizzato per identificare quel parassita.
“Mi ha chiesto qualcosa da leggere…speravo di scoraggiarlo, invece pare che gli piaccia. Dopo lo interrogo. Se ha imparato quello che sta leggendo, lo assumo al posto tuo. Io e un ragazzino prodigio, insieme, potremmo dominare il mondo!”
“Certo, due manipolatori sono più forti di uno.” mormorò Chase.
“Geloso?”
Chase scosse la testa, non sarebbe mai riuscito ad avere l’ultima parola col suo capo. “Allora, cos’hai scoperto?” cambiò discorso.
“Ho scoperto che la chiave di questo caso è la placenta.”
“Cioè?” chiese impaziente Foreman.
Cameron era appoggiata con la schiena alla parete e non aveva perso un solo movimento di House, seguendolo con lo sguardo in ogni suo gesto. Lui se ne accorse e quell’attenzione lo mise un po’ a disagio. Cercò di evitare il suo sguardo per concentrarsi solo sulla diagnosi.
“Credo che la Pivet, così come il moccioso e sicuramente qualche altro barbone satanista, avessero la cattiva abitudine di cibarsi di tanto in tanto di quella roba.”
“Potrebbe essere a causa di quello strano culto che seguono. Fanno parte di una specie di setta, no?” Cameron fece quella domanda futile con il solo scopo di avere lo sguardo di House su di lei per qualche istante. Ne aveva bisogno.
Non riuscì ad ottenere quello che voleva, lui continuò a parlare passando rapidamente dalla lavagna a Chese e Foreman, evitandola.
“Si, ma non ci interessa il motivo. Di solito si cibano di placenta di bambini nati a termine, ma qualche mese fa è capitato che una donna di strada, del loro giro, ha abortito spontaneamente.”
“Davvero?” chiese stupito Foreman.
“Sto ipotizzando…ci vuole un po’ di fantasia! Dicevo…” sentiva bruciare lo sguardo di Cameron su di lui. “Elliot e la Pivet mangiano questa placenta, che contiene il nostro caro animaletto di pagina 2.149.”
Foreman tentava di seguire il ragionamento del suo capo, la fronte aggrottata. Era impaziente di arrivare alla fine, dove si smetteva di parlare e si agiva.
“Il parassita trova un buon nascondiglio nel cervello: un’area cicatrizzata, delle cellule morte che lo possono ospitare nell’attesa che le uova si schiudano e arrivi la cavalleria.”
“Ma quale sarebbe l’origine della cicatrizzazione?” Foreman incominciava a capire, ma voleva assicurarsi che non gli sfuggisse niente.
“Quello me lo devi dire tu! Ci sono difetti genetici che possono provocare questo tipo di cicatrizzazioni nel cervello?”
“Si certo. Ma mi sembra improbabile che si sia formata nella stessa area in entrambi…”
“Ma essendo madre e figlio, qualche probabilità c’è.”
“Si, può essere, ma…”
“Mi basta il può essere.” gli fece cenno di smettere di parlare “Quindi il giovane parassita appena emigrato…chiamiamolo RinTinTin per la sua intelligenza acuta ma limitata in quanto animale, se ne sta buono buono nel lobo temporale, mentre il flusso sanguigno si addensa. Ma questo non allarma nessuno.”
Cuddy e Wilson avevano raggiunto l’equipe e, in rispettoso silenzio, ascoltavano House descrivere la sua fantasiosa teoria. Fantasiosa, ma con quella sfumatura di realismo e possibilità che ti impediva di smettere di seguire affascinato il suo delirio.
“Quando le uova si schiudono, e incominciano ad arrivare i rinforzi, RinTinTin incomincia a muoversi, per raggiungere il resto della squadra, seminata per il cervello. In Elliot si è mosso verso la corteccia motoria e, per sua fortuna, si è fermato lì.”
“E perché si è fermato?” Wilson osservava l’amico, come si illuminava quando aveva tra le mani la sua diagnosi, la sua adorata diagnosi. Teneva il braccio attorno alle spalle di Lisa, che ancora molto scossa, si era abbandonata a quell’abbraccio fregandosene di quello che potevano pensare di lei, di loro. Era un suo diritto essere coccolata ed amata, era una donna prima di essere l’amministratrice di quell’ospedale. Era una donna che soffriva, e aveva bisogno di un uomo. Indipendentemente da tutto, era Lisa Cuddy e aveva bisogno di Wilson. Dagli occhi con cui l’oncologo la guardava, si capiva che era ricambiata dello stesso dolce sentimento.
“Si è fermato perché Elliot non ha più mangiato quella placenta. La Pivet si però, lei ha una casa, un frigorifero, l’avrà conservata…”
Un’espressione disgustata si fece largo sul volto di tutti i presenti.
House provava sempre un sottile piacere a impressionare le persone, sia in positivo che in negativo. Anzi, forse in negativo gli piaceva ancora di più: quelle facce disgustate gli fecero piacere. “Che razza di pervertito che sono!” pensò, in realtà orgoglioso di se stesso.
“La colonia nel cervello di Elliot non si è ulteriormente moltiplicata, perché gli è mancato il cibo. Sono parassiti che nascono e si moltiplicano nella placenta, nutrendosi di sostanze contenute in essa, che nel nostro organismo sono contenute a livelli troppo bassi.”
“Quali sostanze?” chiese Chase.
“Ma la smetti di rompere?! Non so di che sostanze sto parlando, però è andata così.”
Chase fece spallucce, mentre la Cuddy si passava una mano sulla fronte: se non avesse conosciuto House, sentir parlare così un medico sarebbe bastato a farglielo licenziare in tronco.
“Quindi Elliot rimane con un braccio paralizzato, ma non peggiora. Sua madre invece continua a cibarsi della placenta infetta, permettendo a RinTinTin a ai suoi figli, nipoti e cugini, di nutrirsi, di crescere e moltiplicarsi, continuando ad andare a spasso, in questo caso per il cervelletto.”
“Perché la corteccia motoria in Elliot e il cervelletto nella Pivet?” chiese Foreman.
“Non lo so.”
I medici si guardarono perplessi.
“E perché la Pivet è migliorata tanto da tornare a camminare e poi è peggiorata ancora?”
“Questa domanda è decisamente più interessante!” disse House entusiasta. “Credo che la Pivet quella notte non sia semplicemente migliorata, ma sia guarita del tutto.”
Foreman spalancò gli occhi, incredulo. “Dici che l’abbiamo curata in qualche modo e poi si è riammalata quand’era fuori di qui?!”
“No.” House si spostò verso la porta finestra, la aprì, e fece cenno ad Elliot di entrare.
“Questo piccolo genietto l’ha curata, facendole mangiare della placenta non infetta che, evidentemente, contiene anticorpi che possono distruggere RinTinTin, e così è stato.”
Tutti guardarono Elliot, con un misto di timore e ammirazione. Era davvero un bambino curioso.
“Non credo sapesse cosa stava facendo…” disse Foreman; l’idea che un ragazzino di 12 anni conoscesse la cura per un disturbo che gli aveva impegnati per giorni senza farli nemmeno avvicinare alla soluzione, lo irritava terribilmente. “Se avesse saputo che bastava della placenta non infetta a curare la madre, si sarebbe curato anche lui.”
“Già..” disse House, sorridendo al ragazzino, che lo guardava diffidente.
Appena Elliot si volse verso Chase, del quale cercava lo sguardo appena poteva, House lo afferrò per il braccio sano, torcendoglielo dietro la schiena. Gli spinse poi il bastone sulla gola, tentando di soffocarlo.
Tutti i medici accennarono un passo verso di loro, spaventati dal comportamento del diagnosta, ma si bloccarono non appena fu Elliot, da solo, a liberarsi da quella presa, separando con forza il bastone dal suo collo…usando il braccio paralizzato. Evidentemente non lo era più.
Sguardi confusi passarono ripetutamente dal ragazzino ad House, che aveva una nota espressione di vittoria sul volto.
Elliot ansimava, cercando di recuperare l’ossigeno che gli era mancato per qualche secondo.
“Evidentemente le sue doti di abile ipnotizzatore non erano sufficienti per convincerti a portarlo qui in ospedale.” spiegò House, rivolto a Chase, che sembrava sconvolto. “Serviva anche un elemento che interessasse a noi, come un sintomo in comune con la madre. Mamma e figlio avevano un piano d’emergenza.” si rivolse al ragazzino. “La tua capacità di osservare ti ha permesso di capire che era nella placenta la soluzione del disturbo di tua madre, e del tuo. Tua mamma è però meno furba di te, e appena è tornata a casa ha fatto colazione con gli avanzi congelati della placenta infetta, e si è ammalata ancora.”
Elliot lo guardava ancora ansimando, senza accennare nessun movimento. Era sicuro che, se avesse fatto qualche mossa falsa, quel dottore psicopatico non avrebbe esitato questa volta a soffocarlo veramente.
“Ma…ora che facciamo? Basta farle mangiare della placenta non infetta per farla guarire?” chiese Cameron, confusa.
“Con la paziente in questo stato non ne sono sicuro, ma probabilmente si.” finalmente posò lo sguardo su di lei.

Dio, com’era bella.

“Non è una pratica medica consona…” tentò di protestare la Cuddy, sicura che sarebbe stata brutalmente interrotta dal diagnosta.
“Hai ragione, non si può fare.” disse invece lui “Non mi permetterei mai di evadere qualche regola del Plaisboro, temo troppo la tua ira vendicativa.”
“Ma finiscila…” Cuddy capì che aveva in mente qualcosa.
“No, davvero! Magari mangiare la placenta la salverebbe, o magari no. Ma anche se la salvasse…noi non conosceremmo comunque l’azione del parassita. Insomma, come fa a provocare quei sintomi, fino alla paralisi?”
“House quella donna sta morendo, se c’è una cosa che può salvarla…” Chase trovava inconcepibile che il bisogno di sapere del suo capo venisse prima della vita di quella donna.
“Non la ucciderò.”
“Deve darle quella placenta!” urlò Elliot improvvisamente, scagliandosi contro di lui.
“Deve dargliela subito! Non può farla morire per la sua sete di conoscenza!” Elliot incominciò a prendere a pugni House, che tentava di tenerlo fermo come poteva. Foreman e Chase intervennero per aiutarlo, mentre gli altri li guardavano disorientati. Quel bambino passava da uno stato di calma e tranquillità che sfioravano l’apatia a quegli attacchi violenti con una velocità strabiliante.
A fatica lo separarono da House. Continuava a dimenarsi, con sempre più violenza. Era difficile tenerlo fermo anche per due uomini forti come loro.
Dopo un minuto abbondante si bloccò di colpo; Chase e Foreman si guardarono perplessi, senza lasciare la presa.
“Se continui a urlare così darai nell’occhio…” disse House, verbalizzando le sue paure. “Ma ormai credo che neanche lo stare tranquillo ti eviterà l’istituto.”
Chase osservò grave il suo capo. Nonostante tutto quello che aveva combinato quel giorno, sentiva per quel ragazzino ancora una forma di affetto, che gli impediva di tradirlo così. “Aspettiamo a prendere decisioni affrettate, House.”
“Di quello che bisogna fare col ragazzo me ne occupo io.” disse decisa la Cuddy. “Ora però voglio che guarite quella donna, il prima possibile. Non mi interessa che metodi userete, ma la voglio fuori da qui. Capito House?”
Lui annuì, apparentemente docile.
La Cuddy sapeva che avrebbe fatto comunque tutti i suoi test per scoprire cos’aveva la Pivet, era inutile combattere con la sua sete di sapere. Gli si avvicinò di qualche passo, per non farsi sentire da Elliot. “Almeno non farla morire.” gli sussurrò.
House si baciò le dita incrociate. “Promesso mamma.”
“Cosa ne facciamo di lui? Chiamo la polizia…”
“No aspetta. Potrebbe tornarci ancora utile, il suo cervello è guarito.”
“House…”
“Dobbiamo aspettare la mezzanotte! Non vorrai rompere quel patto…”
Lei sospirò. “E va bene, ma intanto?”
House guardò Chase. Era un idiota: quel bambino aveva tentato di manipolarlo e l’aveva pure picchiato. Come faceva a tormentarsi ancora per quella stupida promessa? Elliot gli stava ancora a cuore, era preoccupato per la fine che avrebbe fatto. Che razza di…
Incrociò lo sguardo di Cameron, che lesse in lui tutto il disprezzo per il collega. La dottoressa si avvicinò ai suoi capi. “House, lascialo un po’ di tempo con Chase.”
“Perché?”
“Perché non farà nulla, ormai non tenterà più di avvicinare sua madre, né scapperà.”
“Rischia di finire in istituto, certo che scapperà.” disse la Cuddy.
“No, ha ragione Cameron. Non proverà più ad avvicinarla, e non sparirà. Ha ancora paura che io non la curi in fretta, rischierà l’orfanotrofio piuttosto di farmela ammazzare. Che cosa scomoda l’amore filiale.” si girò verso Chase. “Occupati tu di Elliot, però lo voglio lontano da me.”
Il medico lo guardò sorpreso, non si aspettava certo che lo affidassero a lui. Nello stesso tempo era contento, e non si riusciva a spiegarselo: quel ragazzino era un vero b@st@rdo.
Anche Foreman sembrava perplesso, ma in quel momento la paziente gli interessava decisamente più del bambino, ormai guarito, e non vedeva l’ora di poter decidere con House cosa fare con la Pivet.
“Va bene.” rispose Chase dopo qualche secondo di esitazione.
“Fuori di qui.” ordinò House, rivolto a tutti e due.
Elliot si avvicinò a testa bassa a Chase, e insieme lasciarono la sala equipe.
“Che facciamo con la Pivet?” chiese Foreman, irrequieto.
“Sei proprio un insensibile! Non ti importa proprio niente di quel povero ragazzino, né del tuo patetico collega in preda ai sensi di colpa.” lo prese in giro House.
“Se quella donna muore il ragazzino si metterà a piangere e Chase si fustigherà. Lo faccio per loro.”
House sorrise, quel cinismo tra le labbra del suo neurologo era musica per le sue orecchie. “Falle un esame istologico alla materia grigia. Dobbiamo trovare l’anomalia specifica che provoca le paralisi e i disturbi motori. Fai in fretta, non vorrei morisse mentre aspettiamo i risultati. Cameron, tu analizza il campione di placenta rimasto. Voglio sapere tutto ciò che contiene. Tutto.”
I due medici uscirono rapidamente dalla stanza.

Quando furono lontani, House si voltò verso Wilson. “Sono nella m€rd@ fino al collo.” gli disse in un soffio.
La Cuddy lo osservò stringendogli occhi, come per studiarlo, cercando di capire a cosa si riferisse. Conosceva almeno una dozzina di motivi per cui House poteva essere nella m€rd@ fino al collo.
Wilson scosse la testa, sorridendo. “Te la caverai.”
“Se non fosse per lei avrei risolto questo caso ore fa. Mi distrae, mi impedisce di pensare.”
“Non è colpa sua, è tua. Se ti rilassassi e accettassi i tuoi sentimenti senza andare in panico, non interferirebbero più col tuo lavoro.”
Cuddy guardò il diagnosta con meraviglia.
“Cameron?” chiese, divertita.
“Tu stai zitta per favore.”
Le venne da ridere, vedere House così agitato era uno spettacolo davvero insolito.
“Non sopporto l’idea che sia stata a letto con Chase.”
A Lisa venne in mente un ricordo, di tanti anni fa. Un medico arrivato da poco aveva offerto un caffè a Stacy, mentre lei stava aspettando che House finisse di lavorare. Era sempre così: lui non aveva orari, ma lei passava sempre in ospedale dopo il lavoro, e c’era sempre un sorriso per lui quando finalmente la raggiungeva. Stacy aveva accettato con piacere quel caffè, e aveva parlato un po’ con quell’uomo, per passare il tempo. Quando House l’aveva saputo, non le aveva quasi rivolto la parola per giorni. La sua forte gelosia era in contraddizione con l’indifferenza e la freddezza con cui trattava di solito le persone, anche le sue donne. Ne sapeva qualcosa.
“Sei geloso, è normale.” provò a dirgli la Cuddy.
Lui si voltò verso di lei. “E’ normale?!” chiese irritato.
“Si, tu eri geloso di Stacy. Sei geloso delle persone che ami.”
Wilson osservava l’amico con un mezzo sorriso, la spalla appoggiata alla porta. Se avesse provato a fuggire, gliel’avrebbe impedito. Doveva affrontare il discorso, o si sarebbe portato avanti questa storia per giorni, forse settimane, senza concludere niente.
“Io non amo nessuno. A parte Steve.” Cuddy lo guardò perplesso. “Il mio topo!” precisò lui.
“Smettila di fare il bambino House, sei un uomo e sono anni che sei solo.” Lisa gli parlava decisa, le braccia incrociate, come faceva quando sapeva di avere ragione. “Cameron ti adora. E’ bella, dolce e anche forte. Ha un tipo di forza che tu non conosci, ma sai che ce l’ha. Sei attratto da lei dal giorno che l’hai assunta, e l’unico motivo per cui non te la sei ancora portata a letto è che non si tratta di semplice attrazione sessuale.” House fissava il suo capo, senza avere il coraggio di fermarla. Era impressionante come fosse tutto così semplice e lineare visto dall’esterno. “Hai paura che ti coinvolga troppo.”
“Quand’è che siamo diventati così intimi noi?” le chiese ironico, incrociando a sua volta le braccia.
“Quando sei venuto a casa mia, distrutto, dopo che Stacy ti aveva lasciato. O quando siamo stati a letto insieme…” rispose lei, con quel tono di sfida che lui conosceva bene.
“Ma l’hai addestrata tu a mettermi in difficoltà?!” House si rivolse a Wilson; di solito era lui a sbattergli in faccia la verità quando mentiva a se stesso.
“No, House. E’ talmente palese che se ne accorgono tutti. Va’ da Allison, stai un po’ con lei. Viviti qualche momento di gioia, rinuncia al tuo masochismo per una volta. Magari ci prendi gusto.”
House aveva almeno un centinaio di battute sarcastiche con sui distruggere l’atmosfera imbarazzante che pesava su di lui in quel momento. Ma alla fine aveva davanti gli unici due amici degni di quell’appellativo, gli unici che aveva accettato e che lo accettavano. Forse avevano ragione, forse era ora che smettesse di distruggersi. Stacy l’aveva lasciato per…
“Stacy ti ha lasciato per colpa tua, House.” era la prima volta che qualcuno diceva ad alta voce questa terribile verità che lo tormentava da anni, e fu contento che fu il suo migliore amico a farlo. “Ti sei fatto del male e ne hai fatto a lei. Non ha senso continuare così, sono passati tanti anni…Cerca di perdonartelo e concediti un po’ di felicità.”
“E concedila anche a quella povera ragazza.” continuò la Cuddy. “Cameron ti vuole bene, e sa di essere ricambiata. Che senso ha tenerla così lontana da te?”
“Sapete che insieme le vostre peggiori caratteristiche non si sommano? Si moltiplicano! Saranno tempi duri per me ora che incomincerete a fare coppia fissa!” House gli avrebbe abbracciati, se fosse stato in grado di avere un gesto d’affetto per qualcuno che non fosse il suo topo.“Ritenetevi responsabili di qualunque str0nz@t@ che farò.”
“Va bene.” risposero entrambi. Lisa sorrideva, ma House notò quell’ombra dei suoi occhi.
“Cuddy.” la chiamò quando erano entrambi sulla porta, pronti a lasciarlo un po’ solo coi suoi tormentati pensieri.
Lei si voltò.
“Mi dispiace per tuo papà.” le disse, senza riuscire però a reggere il suo sguardo.Gli faceva paura leggere una sofferenza così grande in una persona così vicina a lui.
“Grazie.” si limitò a dire lei.
Poi entrambi si allontanarono, camminando vicini, con quella complicità che li avrebbe uniti a lungo, forse per sempre.

31 gennaio, h 23.15
Parcheggio del Princeton Plaisboro Teaching Hospital

Avevano risolto il caso.

Cameron aveva trovato gli anticorpi che bloccavano la riproduzione del parassita nella placenta sana, gli avevano somministrati alla Pivet e sembrava stesse funzionando. Ovviamente non avrebbero avuto risultati certi se non tra qualche ora, ma era già scomparsa la labirintite e House era sicuro che tra poco la donna avrebbe ricominciato a respirare da sola.
Non aveva ancora capito precisamente come agiva il parassita, ma c’era il campione prelevato con l’esame istologico, e avrebbe avuto i prossimi giorni per fare tutti gli esami che voleva. Sapeva che non sarebbe stato solo in quell’inutile ricerca della verità: Foreman era curioso quanto lui, e avrebbero svolto in silenziosa compagnia tutti i test, arrivando poi alla soluzione di quell’enigma e accorgendosi, ancora inesorabilmente insieme, che non aveva più la minima importanza.

Era riuscito a scucire ai poliziotti qualche informazione sull’arresto della Pivet. Pareva che fosse coinvolta in un brutto affare di commercio di bambini. C’erano coppie sterili che offrivano molto denaro per avere un bambino, senza dover subire il lungo iter delle adozioni, e c’erano persone pronte ad approfittarsi della situazione. La Pivet gestiva un culto che venerava la femminilità, la maternità, e con tecniche di suggestione simili a quelle usate dal figlio, convinceva molte delle donne di strada che rimanevano incinte, a cedere il oro bambino. In cambio dava uno piccola somma di denaro, e qualche preghiera. Il grosso dei soldi lo intascava lei.

Forse si sarebbe meritata di morire.

Raggiunse Cameron all’aperto, nel parcheggio.
La dottoressa era appoggiata alla sua macchina, le braccia incrociate per proteggersi dal freddo, che a quell’ora della sera era ancora più pungente. La luna piena, il cielo scoperto e il gelo, rendevano il cielo di uno strano colore rossastro.
Allison guardava il divertente spettacolo davanti a lei: la macchina di Chase procedeva a tentoni, tra improvvise accelerazioni e brusche frenate, continuando a girare in tondo nel parcheggio semivuoto.
House si appoggiò a sua volta, vicino a lei, più vicino di quanto entrambi si aspettassero.
“Cuddy ha chiamato i servizi sociali, stanno venendo a prenderlo.”
“Lo so.” rispose lei, continuando a guardare dritto davanti a sé. “Non ho il coraggio di dirglielo.”

Rimasero qualche secondo in silenzio, a riflettere.

Di tanto in tanto arrivavano a loro le risate di Elliot e Chase. Quest’ultimo aveva deciso di far fare al ragazzino qualcosa che lo distogliesse per un po’ dal mondo che si stava sgretolando attorno a lui. Sapeva che avrebbe voluto provare a guidare, e gli permise di farlo, conscio di quanto sarebbe servito a lui, da ragazzino, un amico che lo distraesse in quei momenti in cui la realtà gli sembrava troppo grande e minacciosa per lui.
Lo vide come una sorta di riscatto.

“Prima glielo diremo, più tempo avrà Elliot per salutare sua mamma. Non la rivedrà per molto tempo.” a queste parole di House, Cameron si voltò finalmente a guardarlo.
Il diagnosta si accorse che aveva le lacrime agli occhi.
L’istinto fu quello di andarsene senza dirle una parola, ma decise di bloccare quell’impulso codardo. Decise di farlo per il bene di entrambi.
“Perché piangi?” le chiese. Non c’era nessuna nota sarcastica nella sua voce, solo reale preoccupazione.
Lei si passò le dita sotto agli occhi, cercando di asciugarsi l’ennesime lacrime della giornata, senza rovinarsi il trucco. “E’ solo un bambino. Poi Chase…non la prenderà bene. Adesso è…guarda com’è felice. Si è affezionato a quel ragazzino.”
Cercò di sorridergli. Aveva le gote arrossate dal freddo e gli occhi le brillavano per le lacrime. “So che il mio commuovermi ti sembra patetico, ma non ci posso fare niente.”
Lui scosse la testa, tornando a guardare verso l’auto. Elliot era riuscita a parcheggiarla, sfiorando di poco un albero. Dopo pochi secondi entrambi scesero, ma si bloccarono appena videro lui e Cameron.
House fu certo che avevano capito cosa stava per accadere.
Chase posò una mano sulle spalle del ragazzo, e camminarono insieme verso di loro.

“Non sei capace a parlare agli alberi per convincerli a spostarsi?” chiese House ad Elliot, appena furono di fronte a loro. “Ti servirebbe, perché se guidi così da schifo non andrai molto lontano.”
“No dottore, ma forse è il caso di imparare. Lei può insegnarmelo?”
House rise sommessamente.
Chase non staccava gli occhi da Cameron, dai suoi occhi lucidi.
“Stanno venendo a prenderlo?” le chiese.
Lei annuì. “Puoi andare a salutare tua mamma se vuoi.” disse poi, rivolta ad Elliot.
“Grazie.” disse lui, mentre una lacrima gli scendeva per la guancia.
“Accompagnalo tu, Cameron.” disse House alla dottoressa. Nessuno protestò e l’immunologa si impose di smuovere in fretta quella situazione: si alzò in piedi e tese la mano ad Elliot. “Andiamo?” gli chiese.
Elliot si voltò verso Chase. “Grazie per avermi fatto guidare, dottor Chase.” disse, tentando di sorridere tra le lacrime.
Chase aveva gli occhi rossi ma sia Cameron che House erano sicuri che non avrebbe mai pianto di fronte a loro. Ebbe però il coraggio di abbassarsi e abbracciare forte il bambino. “E’ stato un piacere Elliot, vedrai che la prossima volta il parcheggio andrà un po’ meglio.” Continuò a tenerlo stretto per qualche secondo, dando l’ultimo saluto a un piccolo amico/nemico, e forse anche a quel bambino ferito che stava accucciato dentro di lui. Poi si alzò e lo guardò allontanarsi finchè non scomparve, la sua piccola mano in quella della persona di cui più si fidava là dentro, della sua bellissima amica e collega, Allison Cameron.

Quando si ridestò dai suoi pensieri, si accorse che House era ancora appoggiato all’auto dell’immunologa, e lo fissava impassibile.
“Io vado. Ci vediamo domani, buonanotte.” disse rapidamente, poi si voltò e incominciò a camminare verso la sua macchina, miracolosamente integra.
“Chase.” il diagnosta lo chiamò, e poi lo raggiunse con la sua andatura zoppicante.
Sembrava quasi imbarazzato e questo mise Chase a disagio.
“Potrai andare a trovarlo.” gli disse alla fine.
Chase era scosso, ma riuscì a cogliere qualcosa che assomigliava a delle scuse, nascoste nella banale frase del suo capo.
“Già. Ma non credo che andrò.”
House annuì. Fece per tornare sui suoi passi.
“House.” questa volta fu il turno dell’intensivista. “Il prossimo Natale ti regalerò una tazza nuova.”
House alzò gli occhi al cielo. “Sei un b@st@rdo.” disse rivolto alle stelle, ridendo.
“Dev’essere un gran complimento da parte tua.”
“Questa me la paghi.”
“Come pago ogni tuo sbalzo d’umore.”
“Sei l’unico che riesce a sopportare certe pressioni. Cameron si metterebbe a piangere e Foreman correrebbe a parlare con la Cuddy.”
“Anche questo è un complimento?” chiese lui, aggrottando la fronte.
“Sparisci.” allontanò Chase spingendolo col suo bastone, come aveva fatto qualche ora prima con quel poliziotto. Quel gesto era però, questa volta, libero da ogni forma di aggressività. Forse era un gesto amichevole. O almeno così lo intese Chase che, sorridendo, raggiunse la macchina e si allontanò.

Dopo pochi minuti Cameron uscì ancora dall’ospedale e si diresse verso la sua auto. House vi era appoggiato, nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato.
Senza nessuna esitazione, gli lanciò le chiavi della sua macchina.
Lui le prese al volo, e la guardò stupito, colto alla sprovvista dalla spontaneità di quel gesto.
“Non mi vorrai far guidare fino a casa da sola, con le strade in questo stato?” disse al suo capo, fingendo indignazione. La luce nei suoi occhi esprimeva, allo stesso tempo, quanto desiderasse che lui accettasse quell’invito, che lui accettasse quello che entrambi volevano.
“Ma non spettarti che ti apra la porta, o cr€tin@te simili.” disse lui, sedendosi al posto del conducente.
Si allontanarono dal Plaisboro.
I loro cuori, che battevano così veloci, mescolavano insieme tutte le intense sensazioni delle ultime giornate, consapevoli che l’emozione più grande gli avrebbe travolti tra poco, quando finalmente sarebbero stati l’uno tra le braccia dell’altra.



A meno che…


Si svegliò con la sua piccola mano appoggiata sullo stomaco.
I capelli erano abbandonati sul cuscino, le labbra semiaperte.
Appoggiò la sua mano su quella di lei, chiedendosi quante volte le aveva baciate quella notte.
Centinaia di volte.
Aveva incominciato a stringerla a sè prima che raggiungessero la porta d’ingresso, non aveva resistito.
Lei aveva risposto con una voracità che sembrava impensabile per un essere così delicato.
Le scostò una ciocca di capelli dal viso, sperando che si svegliasse.
Aveva bisogno di essere sicuro che non fosse solo un sogno, aveva bisogno di sentire quella voce che gli aveva provocato sensazioni così diverse da quando la conosceva: irritazione per le sue frasi ingenue, tenerezza per la tenacia con cui gli imponeva i casi che le sembravano interessanti, turbamento per le sue ammonizioni etiche, eccitazione per come aveva ripetuto il suo nome quella notte…
“House…”
Finalmente aveva aperto gli occhi, finlamente lo stava guardando.
Lei gli sorrise, lui le rispose allo stesso modo.
“Voglio dormire ancora un po’.” mormorò , tornando a chiudere gli occhi.
Lui la lasciò fare.

Cameron non voleva dormire, voleva solo godersi fino in fondo quel momento di pace.
Voleva tenere ancora per un po’ la mano sotto il tocco leggero della sua, sentirlo respirare accanto a lei.
Aveva ancora addosso il languore di quella lunga notte.
In quel momento desiderava più di ogni altra cosa che la gioia che aveva nel cuore non la abbandonasse mai.
Era stato tutto più bello di ogni sogno che avesse mai fatto, e lei sognava tanto. Sognava tanto di lui.

House si sentiva calmo, sereno.
Era una sensazione che non provava da anni.
Ma non era solo quello.
Aveva paura a dirlo, anche a se stesso.
Come se stesse seguendo il corso dei suoi pensieri, una semplice domanda uscì flebile dalle labbra di Cameron.
“Sei felice?”
Lui sorrise, cercando di cogliere in ogni sua sfumatura quella stupenda emozione che forse non aveva mai conosciuto a un livello così puro.
Si.
Era felice.







FINE


Vally
 
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cynzietta80
view post Posted on 16/1/2007, 11:04




ciao, so che non mi conosci perchè di solito non commento mai le FF in questo sito...però la tua è proprio molto bella, scritta benissimo e coinvolgente!!! Complimenti davvero...!!! :Ciuffo02:
 
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17fede
view post Posted on 16/1/2007, 16:20




Grande Vally!!!! Bravissima!!! Complimentoni!!! Tutto molto bello,sia la storia che il caso medico...davvero brava!!!
 
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35 replies since 29/11/2006, 00:01   864 views
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