It's in the pills that bring you down...

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°vally°
view post Posted on 29/11/2006, 00:01




Ecco il primo capitolo della mia prima fanfic, nata x vincere la disperazione della fine della 2° serie!
Il titolo è un verso di una canzone dei Placebo, che adoro!
Ho cercato di attenermi il più possibile al carattere dei personaggi, con qualche eccezione ovviamente ^_^ !
Ringrazio Moky x l'aiuto x alcuni termini!
Ora...a voi!
Sn graditissimi, anzi richiestissimi, commenti e critiche!


It's in the pills that bring you down...

CAPITOLO 1

28 gennaio, h 17.00
Ufficio di House

“Bisogna farle una risonanza magnetica, adesso!”
“La macchina è occupata, ed è prenotata per le prossime tre ore dal Dr. Kryke.” Cameron aveva il tono pacato e rassegnato di chi sa dove andrà a parare questa discussione.
“Io ho bisogno adesso di quella macchina! La mia è un’urgenza vera, le sue no!”
“Questione di punti di vista…” Chase commentò a bassa voce, ma non abbastanza da non essere udito. Lo sguardo di House si posò pochi istanti su di lui, abbastanza per fargli capire di aver fatto un errore, l’ennesimo dell’ultimo periodo, tutti errori che il suo capo gli avrebbe fatto pagare. “Cameron, prendi la paziente e portala a fare la risonanza…” “Ma…” “…e portati Chase, Quell’accento inglese oggi mi è intollerabile, lontano da me!” “Australiano…” Errore numero due della giornata. “Inglese o australiano…l’importante è…zitto!”. Stava per replicare qualcosa ma la mano di Cameron si appoggiò sul suo braccio e capì che era meglio lasciare perdere. Si voltò e seguì la collega.
“Foreman tu…” House si voltò verso il neurologo. “State esagerando” replicò lui, interrompendo House. Sospirò. “Vai a casa della donna.”. Foreman scosse la testa e usci dall’ufficio di House.
Lui rimase qualche secondo a fissare la porta, soprappensiero. Poi alzo la cornetta e chiamò Wilson,
“Pronto”
“Vai dalla Cuddy”
“Perchè?”
“Dille che deve ordinare a Kryke di stare a cuccia mentre i miei fanno la risonanza alla mia paziente.”
“Kryke ti odia, non t farà mai un favore.”
“Ecco perché sarà la Cuddy a tenerlo a bada”
“Ma perché non vai tu a parlare con lei?!”
“…”
“House?”
“Devo dare da mangiare a Steve”
e riattaccò.
Wilson posò la cornetta. Questa non ci voleva. Doveva pensare in fredda ad una scusa per non andare da lei. Gliene venne in mente una che gli sembrava ottima e richiamò subito House.
Dopo due squilli fu salutato dal “Si che ci vai invece” di House.
“Ma come facevi a sapere che…”
“Che non vuoi avvicinarti all’ufficio della Cuddy?”
“No…che ho avuto un’emergenza, devo cercare un chirurgo per un’operazione urg…”
“bla bla bla…non prendermi in giro”
“urgente”
“ma smettila.” Wilson non poteva vederlo, ma House aveva un sorrisino perfido…si stava divertendo a torturare l’amico.
Wilson d’altra parte era visibilmente scosso. Decise per una soluzione che non era da lui, ma fu l’unica che gli venne in mente al momento. Riattaccò.
House rimase qualche secondo perplesso a fissare la cornetta. Aveva messo in difficoltà il suo amico diverse volte, e di solito il siparietto si concludeva con Wilson che confessava le reali motivazioni di qualche suo comportamento insolito che tentava invano di nascondere ad House, lui lo prendeva in giro per un po’, l’altro si fingeva offeso, e il giorno dopo era tutto come prima.
La cornetta riattaccata così brutalmente fu un segnale di stop per House.
Richiamò l’amico.
“House, ho da fare, occupati tu dei tuoi pazienti”
“Si, vado io dalla Cuddy”
Wilson però lo sapeva, la tregua al placcaggio non sarebbe durata a lungo.

House si avviò verso l’ufficio della Cuddy, ma incontrò Cameron nel corridoio. “Chase sta facendo la risonanza”
“E Kryke?”
“Gli ho chiesto un favore, con gentilezza, e mi ha permesso di far passare avanti la paziente.”
“Semmai glielo avrai promesso un favore…” insinuò passando oltre la dottoressa.
Cameron incassò la battuta sorridendo, ormai riconosceva una forma di affetto nel continuo tormentarla di House.
“Vado a casa, fatemi sapere se trovate qualcosa!” le urlò ormai lontano da lei.

28 gennaio, h 21.00
Casa di House

Il telefono di House squillò; era Foreman.
“Ho trovato una cosa”
“Dove? Cosa?” gli rispose una voce assonnata.
“House, sono Foreman, mi hai mandato a casa della signorina Pivet, la paziente semiparalizzata, e ho trovato una cosa interessante”
“Mmm…”
“Ma mi stai ascoltando?”
“No! Ti richiamo io.”
E riattaccò.

Foreman era abituato agli sbalzi d’umore di House, ma ultimamente il Plaisboro sembrava una gabbia di matti. Il telefonino squillò dopo pochi secondi.
“Pronto”
“Cos’hai trovato?”
“Placenta.”
“Placenta?”
“Si, qualcuno ha partorito da non più di 48 ore in questa casa…”
“Non la paziente, le abbiamo fatto tutti i controlli giusto?
“Si, l’ha visitata Chase. Se ne sarebbe accorto se…”
“Ok, ok. Ma ci sono una donna e un neonato in circolazione che potrebbero avere bisogno d’aiuto, e la nostra paziente sa qualcosa.”
“Sono a 3 ore di auto dall’ospedale e…”
“Chiama Cameron”
“Chase è di turno”
“Chiama Cameron e dille che ci vediamo nel mio ufficio tra un’ora”
“Chase è di turno”
“Ti si è incantato il disco?! Richiama se trovi altro d’interessante, come un cadavere di neonato o roba simile.”
E riattaccò.
La versione suscettibile del suo già suscettibile capo era decisamente odiosa.
“E’ un ottimo medico, è un ottimo medico…” questa filastrocca ripetuta tra sé e sé era un ottimo calmante per Foreman.

28 gennaio, h 22.30
Ufficio di House

“Sei in ritardo” House era appoggiato alla parete del suo ufficio, con le luci spente.
“Lo so, ho fatto prima che potevo. Ma c’è Chase di turno perché mi hai fatto chiamare?” Cameron era visibilmente scocciata. “e…ma perché è tutto buio?” e si avvicinò all’interruttore.
“No!” House la bloccò col suo bastone.
“Che succede? Ancora emicrania?”
“No. Vieni più vicina.”
La scocciatura lasciò spazio alla sorpresa e un po’ di timore. Il cuore incominciò a battere più veloce, e il ricordo di sensazioni forti che si credevano dimenticate si affacciò alla mente di Cameron. Ma durò solo un’istante.
Si avvicinò di qualche passo e appena fu abbastanza vicina House la prese per un braccio e la tirò vicino a lui, facendo segno di stare in silenzio. Niente dichiarazioni d’amore o baci mozzafiato, House voleva qualcuno che giocasse a nascondino insieme a lui. Ma a lei andava bene così, giusto? Ormai le era passata… A volte non ne era così sicura, ma il dubbio durava sempre poco.
“Cosa stiamo facendo?” chiese sussurrando.
“Sta arrivando Chase”
“E’ lui che conta?”
House la guardò con espressione perplessa, evidentemente non aveva capito il suo accenno a un gioco da bambini forse ormai dimenticato.
Chase entrò in ufficio accendendo la luce. “Perchè state al buio?” chiese sorpreso.
Cameron stava per rispondere ma fu interrotta da House: “Ehm…così!” disse fingendosi imbarazzato, e si diresse in fretta verso la lavagna.
Cameron subì in silenzio l’occhiataccia di Chase e un’idea sulle intenzioni di House cominciò a farsi largo nella sua testa.
Bastardo manipolatore.
“Foreman ha trovato una cosa insolita a casa della Pivet: placenta.” Esordì House.
“Placenta?! Umana?” chiese Cameron.
“Non credo che Foreman abbia interrotto la mia serata divanobirratv per il parto di una gattino. Lui ci tiene a me, e al suo lavoro…”
“Ho visitato io la paziente, non ha avuto gravidanze, né tanto meno un parto in casa poche ore fa!” disse Chase irritato.
“Come sei sulla difensiva! Non sto dicendo che è stata la Pivet a partorire. Ma qualcun altro si, e a casa sua. Dobbiamo scoprire chi e perché non è andata in ospedale; e soprattutto, che fine ha fatto.”
“Potrebbe avere qualcosa a che fare con la malattia della nostra paziente?” chiese Cameron.
“Scopriamolo subito. Chase, inizia tu. Vai a parlare con la donna.”
Chase uscì dall’ufficio.
“E io cosa sono venuta a fare?”
“Tu sei la mia attaccante di riserva. Se Chase commette fallo, entri tu che hai un gioco più morbido e risolvi la partita.”
“…”
“Si lo so che non capisci le metafore sportive! Se la donna vuole parlare, ce la caviamo in pochi minuti con Chase. Se oppone resistenza, vai a seminare un po’ di solidarietà femminile e torni al tempo del raccolto con le risposte. Nel frattempo però un neonato potrebbe morire. Quindi provo prima con Chase.”
L’odioso, perfido altruismo di House…

29 gennaio, h 8.00
Ufficio di House

Foreman arrivò puntuale come sempre (o quasi) e trovò House che dormiva sdraiato sul pavimento. Lo fissò finchè non aprì gli occhi, sentendosi osservato.
“Spione depravato!” esclamò, e si alzò in piedi.
“Ho portato la placenta in laboratorio. Non ho trovato altre tracce di un parto. Non c’è sangue né niente. Nella casa sembra viva solo lei.”
“Non credo. Ci dev’essere un’altra donna. Quella che ha partorito. Se vedi vestiti da uomo nell’armadio di una donna sola, o si traveste o va a letto con Wilson…”
Foreman accennò un sorriso e finì la sua frase “…ma se c’è un’altra donna non ci sono molti indizi che lo indicano. Lo so.”
“Potresti aver notato un guardaroba molto fornito…” tentò House.
“No. Pochi vestiti, un solo letto singolo. Niente spazzolino, il suo è qui in ospedale. Vive sola.”
House si fermò a riflettere qualche secondo.
“Dove sono Cameron e Chase?” chiese Foreman.
“Cameron è a casa, le ho lasciato mezza giornata libera, è rimasta fino alle 4 di mattina a tentare di scucire qualche informazione alla paziente. Chase è in giro.”
“Perché non hai provato a torturare tu la paziente? Di solito è una cosa che ti piace fare”
“Fatto. Ho finito un’ora fa. Niente da fare, sostiene di essere figlia unica da quando è morta la sorella 5 anni fa, niente amiche gravide o cose simili. L’unica persona che entrava in casa sua era la donna delle pulizie. Ma ha 60 anni e non ha più le chiavi di casa. Quindi è da escludere che abbia affittato il bilocale della signorina Pivet come sala da parto con cucinotto a qualche nipote in dolce attesa.”
“Quindi?”chiese Foreman.
“Che domande! Ha mentito! Dobbiamo scoprire da dove viene quella placenta…” e uscì dall’ufficio lasciando Foreman pensieroso a fissare la solita lavagna.
Dopo pochi minuti arrivo Chase.
“Ehi, già in giro per l’ospedale! Non lo vuoi un caffè?” chiese Foreman al collega.
“Ne ho già bevuti cinque di caffè per stare in piedi tutta la notte”
“Ma non è rimasta Cameron a parlare con la paziente?”
“Si ma…sono rimasto anch’io. Ho preferito, potevano avere bisogno di me.”
“E allora perché House non ha dato anche a te la mezza giornata libera?”
“Perché rimanere è stata una mia scelta…e poi figurati se quel bastardo mi fa un favore del genere. Solo Cameron ha certi privilegi.”
“Aspetta aspetta…” disse Foreman avvicinandosi al collega “mi spieghi cosa sta succedendo?”
“Niente che non succeda già da mesi…”
“No. Da un paio di settimane tu e House vi punzecchiate più del solito, ma stranamente sembra non essere lui a portare avanti questo gioco malato. Sei tu, ti accanisci su di lui, e ne subisci le ovvie conseguenze…”
“Non sopporto più la sua arroganza”
“Chase” disse Foreman guardandolo negli occhi “qualunque problema tu abbia risolvilo in fretta, perché non credo House abbia un limite in quello che ti può far passare qui dentro.”
Entrò House.
“Oh eccoti qui! Puoi passare una giornata fuori dall’ospedale!” disse dando una pacca sulla spalla a Chase.
“Cioè?”
“Cioè vai a farti un giro nel quartiere della signorina Pivet, a cercare notizie di una donna che fino a un paio di giorni era incinta e ora non lo è più!”
“Ma cosa te ne frega di questa donna, sempre che esista?!” urlò Chase.
House si bloccò e lo fissò per qualche secondo. “Non ti scaldare” disse con voce pacata “Foreman,vai con lui.”
I due si avviarono fuori dall’ufficio, ma arrivati vicino all’uscita dell’ospedale, Chase cambiò strada.
“Dove vai?” chiese Foreman.
“Dalla Cuddy”
“Ma cosa vuoi fare? Lascia perdere, Chase.”
“Continua pure a fare il cagnolino di House, io mi sono rotto i c@@@ni.”
Chase entrò dalla Cuddy e gli disse quello che gli era stato ordinato di fare. “Io sono un medico, devo lavorare con i pazienti! Non devo andare in giro a fare l’investigatore!”
La Cuddy lo osservò perplessa, spostò lo sguardo su Foreman che alzò le spalle come per dire “non ci capisco niente neanch’io”
“Va bene Robert” disse con tranquillità la Cuddy “non andare, non è un tuo dovere.”
Chase era imbestialito, e nessuno capiva a pieno perché. House non era peggio del solito, era cambiato qualcosa in lui allora. Uscì dall’ufficio mugugnando un grazie e sparì nei corridoi.
“Ma che sta succedendo?” chiese la Cuddy a Foreman.
“Bella domanda!” rispose e si avviò verso la porta.
“Chiamami se queste stramberie durano troppo a lungo, conosco bene House, magari riesco a capire cosa sta combinando.”
“Credo dipenda anche da Chase stavolta” rispose, e uscì.

29 gennaio, h 9.30
Ufficio di Wilson

Wilson entrò nel suo ufficio, si chiuse la porta alle spalle e vi si appoggiò chiudendo gli occhi.
Quando gli riaprì trovò un House divertito che lo fissava con un mezzo sorrisino, roteando il bastone.
“Che stai combinando Wilson?”
“Cosa vuoi dire?” ribattè lui fingendo indifferenza. Girò attorno alla scrivania dov’era appoggiato House e si sedette. House non si girò e dandogli le spalle disse, quasi stesse parlando con se stesso: “E’ successo qualcosa in ospedale…non fai più le tue gite di piacere in giro per i corridoi ad osservare il sedere delle infermiere.” continuava a roteare il bastone “Arrivi sempre un po’ in ritardo, vai via un po’ prima, e ti porti addirittura da mangiare da casa.” si girò lentamente “inizi e finisci le tue visite in studio, non offri neanche il caffè ai tuoi pazienti come ami tanto fare…” appoggiò le mani alla scrivania e fisso l’amico. “Cosa stai combinando Wilson?”
“Sei paranoico” disse lui distogliendo lo sguardo “e forse fai anche bene, ma stai dirigendo la tua paranoia dalla parte sbagliata!”
“Cosa vuoi dire?” chiese House leggermente spiazzato.
“Uno dei tuoi sta dando i numeri”
“Chase?”
“Si, l’ho sentito parlare con un’infermiera. Si lamentava di non so che ordine che gli avevi dato e che lui non ha svolto.”
House alzò gli occhi al cielo, poi tornò a guardare Wilson.
“Chase non è comunque un mio problema, so perfettamente quello che gli passa per la testa. Sei tu che mi nascondi qualcosa…”
“Pensala come vuoi, ma vai a riflettere su quello che sto tramando alle tue spalle da un’altra parte. Ho un appuntamento con un paziente.” Disse Wilson alzandosi e indicando ad House la porta.
“Mi stai cacciando?!”
“Si. Ho un paziente.”
“Ma io sono un amico, sono più importante!”
“In questo momento sei solo un b@st@rdo. Ci vediamo dopo.”
“Pranzi con me?”
“Va bene” rispose Wilson sospirando
“Frego il pranzo a Kryke e vengo qui, così non devi uscire e non rischi di prenderti tutte quelle brutte malattie contagiose che girano negli ospedali!”
Wilson sorrise di risposta all’amico e lo accompagnò alla porta.
Sapeva che il pranzo sarebbe stato il terzo round, e House l’avrebbe avuta vinta.


House tornò nel suo ufficio, si mise davanti alla lavagna, e incominciò a giocare col suo yoyo.
Donna.
26 anni.
Impiegata statale.
Single.
Vive in un bilocale tenuto con tanta cura, in un quartiere ordinato e pulito.
E’ arrivata in ospedale per un tremore che continuava da quasi cinque ore ormai, e si era esteso dalla mano destra fino a prenderle tutto il braccio. Nell’arco di 12 ore si era esteso a tutta la metà destra del corpo, anche i muscoli del viso avevano incominciato a contrarsi in modo incontrollato. Spasmi muscolari, tremore, convulsioni…il caso era arrivato a lui perché tutto questo si presentava in continua sequenza su tutta la metà destra della paziente. E non c’era modo di calmarle. Si potevano bloccare le convulsioni con farmaci contro l’epilessia, ma dopo pochi secondi si ricominciava: spasmi. Fermavi quelli ma qualche forma di contrazione continuava. Ed erano dolorose.
Quando ormai stavano pensando di mandare la paziente in coma farmacologico, per permetterle almeno di riposare mentre loro cercavano una soluzione, il tremore era scomparso.
Pochi minuti in cui la signorina Pivet quasi gridava al miracolo e poi il crollo.
Paralisi.
Le contrazioni avevano lasciato il posto a una calma piatta.
Gli esami avevano evidenziato solo un’anomalia nel flusso sanguigno cerebrale, un dato troppo generale per portare a qualche ipotesi probabile.
E poi quella placenta. Cosa poteva significare?
Chase aveva ragione, sembrava non esserci nessun collegamento con la paziente. E non era vero che voleva trovare la donna che aveva partorito solo per poter aiutare lei e il bambino. Il motivo reale è che sentiva che c’era qualche legame con la malattia della Pivet, anche se non aveva idea di quale. Ma era il suo istinto a parlare, e lui si fidava ciecamente del suo istinto.
Sentì un rumore e si voltò. Era Cameron.
“Tu ti fidi del mio istinto?” le chiese a bruciapelo.
“Si…bhe…certo.”
“Allora convinci Chase ad aiutare Foreman a cercare quella donna. Sono sicuro che sai come fare.”
“Pensi che vada in giro a dispensare favori sessuali a tutti per farti ottenere quello che vuoi?!” chiese lei fingendo di essere indignata. In realtà era divertita, aveva imparato a giocare con House.
“Si! A proposito, ho bisogno che la Cuddy mi paghi tutti gli spostamenti che sto facendo fare ai tuoi colleghi negli ultimi giorni…”
“Vai al diavolo!” disse lei ridendo.
In quel momento passò Chase. Cameron uscì dall’ufficio e raggiunse il collega.
“C’è bisogno che tu vada a dare una mano a Foreman, nel quartiere dove vive la paziente.” tentò lei.
“Sei il braccio destro di House adesso?” Chase era sulla difensiva anche con lei.
“Sapere qualcosa su quel parto potrebbe aiutarci a scoprire cos’ha Margie che non va”
“Usi il nome di battesimo…molto commovente!”
“Chase quella donna sta morendo. E soffre. Se trovare quell’altra donna può darle una speranza, devi provare!”
“Ma chi sei tu per dirmi cosa devo fare?!” il tono di voce di Chase si alzò fin quasi ad urlare, e sguardi perplessi del personale dell’ospedale si posarono su di loro. “Certo, vado subito! Così tu puoi restare indisturbata a scambiarti battutine idiote con House!”
Si allontanò lasciando Cameron da sola in corridoio, a fissare il pavimento imbarazzata.
Quando alzò lo sguardo si accorse che House aveva assistito alla scena e la guardava divertito.
“Manipolatore bastardo” pensò, e continuò per la sua strada.



29 gennaio, h 14.00
Ufficio di Wilson

Bussarono. Wilson andò ad aprire.
Era House, e aveva tra le mani un cestino da campeggio.
“Non ci speravo più…” disse Wilason in realtà pensando <speravo non venissi più> “Ma cos’hai lì?”
“Scusa il ritardo, ma proprio oggi era il compleanno di non so che infermiera, e tutti quegli idioti hanno lasciato a casa il pranzo per farselo offrire da lei! Ho dovuto rubare il pranzo di un’intera famigliola in visita alla nonnina morente!”
“Ma…”
“Ho dovuto aspettare che morisse! Ha tirato le cuoia mezz’ora fa. E’ passata la fame a tutta la famiglia, e io gli ho voluto evitare la triste visione dei loro panini preparati con tanto amore che ammuffivano in questo grazioso cestino. Bello vero?” chiese mettendolo sotto il naso di Wilson, che lo guardò disgustato.
House posò il castino sulla scrivania di Wilson, e incominciò a tirare fuori il suo contenuto.
Improvvisamente si voltò e guardò il suo amico negli occhi.
“E’ la Cuddy.”
“Smettila House!” James si tradì non riuscendo a reggere lo sguardo dell’amico.
“Bingo!” esclamò, addentando un panino.

Edited by moky78 - 2/12/2006, 20:44
 
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°vally°
view post Posted on 30/11/2006, 21:09




CAPITOLO 2
29 gennaio, H 14.15
Ufficio di Wilson

“E’ la Cuddy”
“Smettila House!” James si tradì non riuscendo a reggere lo sguardo dell’amico.
“Bingo!” esclamò, addentando un panino.

In quel momento bussarono ancora alla porta.
Wilson, ringraziando nella mente Dio di averlo ascoltato, si catapultò verso di essa.
“Ehi, che scatto atletico! Scommetto che qualcuno che ci interrompe è la cosa migliore che poteva capitarti in questo momento…” lo prese in giro House.
Wilson aprì. Era la Cuddy.
Wilson ritirò mentalmente i suoi ringraziamenti e House aggiunse tra i denti: “Oggi sei particolarmente fortunato…”
“Ciao” lei era visibilmente imbarazzata e quando vide House alle spalle di Wilson, che la guardava divertita sopra il suo panino, dimenticò improvvisamente il discorso che si era imparata a memoria.
“Si risponde: ciao Lisa, entra pure.” disse House, scendendo dalla scrivania dove era seduto, in modo un po’ troppo agile per essere un uomo che deve camminare con il bastone. Si avvicinò a Wilson, che stava ancora in piedi davanti alla porta, con la maniglia in una mano e il panino nell’altra.
“State mangiando, torno più tardi.” Disse la Cuddy, facendo un gesto di saluto e si voltò per andarsene.
“Se eri preoccupata sul perché Wilson non esce più dal suo ufficio neanche per fare pipì puoi rimanere, stavo proprio lavorando su questo. Potresti darmi qualche suggerimento sulla causa…” le urlò dietro mentre si allontanava in fretta.
Fu fulminato da uno sguardo di Wilson, e decise che forse era meglio restare ancora un po’ da solo con lui. Il suo amico non era tipo da andare in panico per una donna, e le sue reazioni degli ultimi giorni alle sue provocazioni indicavano che stava perdendo il controllo per qualcosa.
Lasciò andar via la Cuddy, staccò la mano di Wilson dalla maniglia e richiuse la porta.
“Bhè?” chiese all’amico, indicando con un gesto la porta.
“E’ successo…una settimana fa. Era tardi, ero rimasto in ufficio un po’ di più perché dovevo studiarmi quel discorso per il convegno di venerdì. Ogni volta che ci sono questi incontri noiosissimi mi costringono a parlare almeno un’ora e…”
“Pensi che possa desistere? Non te la caverai cambiando discorso. Ho tanto tempo io!” House si lasciò cadere sulla poltrona e Wilson si sedette di fronte a lui su una sedia.
“Ok. Ci siamo baciati.”
House si protese verso di lui e fece gesto di andare avanti.
“Basta. Tutto qui.” disse lui.
“Si, certo! Sei capace di portarti a letto una paziente coi giorni contati e invece hai deciso di andarci piano col diavolo del Plaisboro! Hai paura che si innamori di te, Don Giovanni?”
Wilson si mise la testa tra le mani e aspettò in silenzio qualche altra battuta sarcastica del suo perfido amico.
“James?” House punzecchiò l’amico col bastone “sei narcolettico?”
Wilson aveva ottenuto ciò che voleva: House aveva capito che era alle prese con qualcosa di importante e stava cercando di rimediare un po’ alla sua crudeltà. “Dai raccontami cosa è successo. Ho bisogno di materiale per ricattare la Cuddy. Lavoro ancora qui grazie a cose come queste.” ma il tono di voce tradiva l’ironia delle sue parole. Il suo lato di amico fidato usciva raramente allo scoperto, ma ne valeva la pena.
“Ok. Dicevo…”continuò Wilson guardandolo finalmente negli occhi “ero rimasto in ufficio fino a tardi, e stavo tornando a casa quando ho visto le luci del suo ufficio ancora accese. Allora sono passata a salutarla. Sono entrato, guardava fuori dalla finestra e stava piangendo.”
Sospirarono entrambi pensando al discorso che avevano fatto pochi mesi prima: quel bisogno di Wilson di donne che avevano bisogno di lui…
“Le ho chiesto cosa c’era che non andava ma rimaneva in silenzio. Allora mi sono avvicinato e…l’ho abbracciata.”
“L’eterno consolatore…” mugugnò House alzando gli occhi al cielo.
“La volevo solo abbracciare! Insomma, è un’amica, era triste! Io…”
“Ok, ok, vai avanti.”
“Niente. Mentre l’abbracciavo mi è venuta voglia di baciarla e l’ho fatto.”
“E questo lo chiami niente?! Presumo lei fosse consenziente…se no a quest’ora saresti da qualche chirurgo a elemosinare un trapianto di testicoli…”
Wilson rise sommessamente. “Si, era consenziente. Anzi, era molto coinvolta. E anch’io…”
“Tu non hai paura che lei si innamori di te! Hai paura per te stesso!” esclamò House puntandolo col bastone.
“Si, no, non lo so…” balbettò Wilson.
“Ma se eravate così coinvolti perché…?”
“Perché non siamo andati a letto insieme?”
House annuì.
“N…non lo so…lei…” Wilson sembrava davvero confuso.
Anche House lo era. Non sapeva bene perché ma quella situazione lo metteva in imbarazzo.
Per fortuna il suo cercapersone suonò.
Cameron. I ragazzi avevano trovato qualcosa. Se avesse dovuto compilare una lista con le telefonate più e meno opportune, Cameron sarebbe comparsa in entrambe le colonne.
“Devo andare” si alzò.
Wilson era stupito “E’ un’emergenza?”
“Diciamo di si” e si avviò verso la porta.
“Non hai niente da dirmi?” chiese Wilson all’amico.
“Ti consiglio di vestirti un po’ più sportivo, magari l’uomo classico le fa passare la voglia.” e si chiuse la porta alle spalle.
Wilson rimase perplesso a guardare nel vuoto per qualche secondo, poi andò alla sua scrivania e cercò di concentrarsi sul lavoro.

29 gennaio, h 16.00
Ufficio di House

House entrò in ufficio, la sua squadra era al completo.
“Abbiamo trovato la donna che ha partorito” disse subito Foreman.
“Bene, chi è?” si voltò verso Chase che era appoggiato alla parete a braccia conserte e aveva uno sguardo tutt’altro che amichevole.
“ Chiedendo un po’ in giro siamo fini…” incominciò a raccontare Foreman ma su interrotto da un gesto di House.
“Sei andato anche tu?” chiese a Chase.
Lui annuì senza smettere di guardarlo.
“Sei corso da mamma Cuddy, hai cercato di impietosire metà ospedale e poi sono bastate due parole della dolce Allison a farti cambiare idea.” Disse divertito avvicinandosi a Cameron. Le mise un braccio intorno alle spalle e l’attirò a sé. Il cervello di Cameron le disse di opporsi al giochino sadico del suo capo ma il suo corpo si rifiutava di ascoltarlo. Aveva ancora le braccia conserte ma la forze con cui lui l’aveva attirata a sé le aveva fatto perdere l’equilibrio e il suo corpo ora aderiva perfettamente a quello di House: spalla sul suo cuore, braccio lungo il suo petto, gamba in contatto appena percepibile con la sua, il braccio di House sulle sue spalle, la mano che le aveva sfiorato il collo quando le era passata dietro la schiena… In pochi istanti fece un viaggio lungo la sua pelle e il calore di quella di House, anche se percepito solo attraverso i vestiti, le fece un effetto che come donna era perfettamente in grado di riconoscere.
Incontrò lo sguardo di Chase. Prima era arrabbiato, offeso. Ora vide un lampo di tristezza passare nei suoi occhi.
Manipolatore bastardo.
Appoggiò una mano sul petto di House e lo allontanò da lei, lentamente ma decisa. Lui la lasciò fare.
C’era una tensione palpabile in quella stanza, la percepiva lei, la percepiva House. Chase probabilmente sentiva solo il suo odio, o forse il suo dolore. Foreman lesse tutto questo nella trasparenza degli occhi di Cameron e con decisione riportò tutti coi piedi per terra.
“House” lui si voltò verso il neurologo “la donna che ha partorito è una barbona che ha conosciuto la paziente fuori da un supermercato, mentre chiedeva l’elemosina…” House fece gesto di andare avanti. “Jo, la mendicante, dice che la Pivet l’ha avvicinata e si è informato sullo stato della sua gravidanza. Dopo qualche giorno è tornata da lei e le ha offerto dei soldi per avere la sua placenta, subito dopo il parto.”
House aggrottò le sopracciglia. “Questa Jo ha idea di cosa voleva farci?”
“No. Ha detto che era una bella somma di denaro e l’ha accettata senza fare troppe domande. Ha detto alla paziente dove avrebbe partorito e che avrebbe mandato uno dei suoi amici ad avvisarla quando fosse successo. Così è stato. Jo ha mandato un suo vicino di cartone ad avvisarla e lei in persona è andata a ritirare la “merce”. Ha ringraziato e non si è fatta più vedere. Dimenticavo, il bambino sembra stia bene…”
“…se sparisce dalla sua camera sappiamo dove cercarla. Il reparto maternità pullula di gustosissime placente…” mormorò House.
“Dobbiamo farci dire dalla paziente cosa aveva intenzione di fare con la placenta di quella donna.” disse Cameron, col cuore che finalmente aveva ricominciato a battere regolarmente.
“Io so già cosa voleva farci. Quello che dobbiamo scoprire è se l’ha fatto veramente.”
“Credi volesse mangiarla?” chiese Chase, sforzandosi per concentrarsi sul lavoro.
House annuì impercettibilmente, soprappensiero.
“Anche se l’avesse mangiata prima di venire in ospedale, ormai non ci saranno più tracce nello stomaco e…” iniziò Cameron.
“Prova a parlare con lei.” la interruppe House, guardando nel vuoto.
Cameron si avviò verso la porta.
“No, non tu.” La fermò House, e alzò lo sguardo verso Chase che uscì senza dire una parola. “Credi che dirà la verità?” chiese Foreman in tono ironico.
“Ovviamente no. Ma voglio che sappia che noi sappiamo…” e appoggiandosi al suo bastone lasciò la stanza.

Foreman e Cameron rimasero soli in sala equipe. Lei si appoggiò lentamente a una sedia e guardò Foreman. “Grazie per aver interrotto quel momento imbarazzante” gli disse.
Lui l’aveva fatto per lei, perché si sentiva un po’ in colpa. Non per quella storia dell’articolo, ma per quello che le aveva detto poi. Le aveva detto che era solo una collega. Non era vero, la considerava un’amica; se n’era reso conto troppo tardi, e ora voleva rimediare come poteva. Ad esempio rendendole più facile la quotidianità vicino ad House.
“Cameron, questa storia, qualunque essa sia, sta creando dei problemi…”
“Lo so…credo che House stia facendo un gioco sadico con Chase e…” le salì un moto di rabbia: che diritto aveva House di sconvolgere così lei, Chase e tutti quelli che incontrava? Scosse la testa ad occhi bassi.
“Non è solo House” disse Foreman “E’ anche Chase. E’ tu sei in mezzo. Ti conviene chiarire la tua posizione con Chase, parlare con lui.”
“Che posizione?” chiese lei.
“Ecco appunto. Se le cose stanno così chiariscigli che non c’è nessuna posizione. Che siete due colleghi e basta.” Un pensiero gli attraversò la testa “O amici” si corresse. “Sempre che le cose stiano così.”
Lei lo guardò per qualche secondo, “Si, stanno così. “ gli disse “E Chase lo sa. Non ci sarebbe nessun problema se House non si divertisse continuamente a stuzzicarlo…”
“Sai che non è solo quello” la interruppe Foreman. Le appoggiò rapidamente una mano sulla spalla, quasi a farle una carezza, un tentativo impacciato di farle un po’ di coraggio, e uscì anche lui dalla stanza.
Cameron rimase qualche secondo immobile, persa nei suoi pensieri.
Poi sentì dei passi vicini a lei e alzò lo sguardo.
“Cercavo House” era Wilson.
“Non c’è, credo sia dalla paziente” disse lei confusamente.
Wilson annuì, ma non accennò ad andarsene. Lei notò nell’oncologo, sempre così calmo e sicuro, un’insolita agitazione.
“Tutto bene?” la domanda uscì dalla bocca di entrambi contemporaneamente. Cameron abbassò lo sguardo sorridendo, Wilson si portò le mani al viso, anche lui con un sorriso.
“Ci vediamo Allison” le disse, e tornò nel suo ufficio.


30 gennaio, h 3.20
Camera della Signorina Pivet

La paziente giaceva nel suo letto. Occhi chiusi, respiro regolare.
Ad un certo punto incominciò a muove le braccia, sempre più rapidamente. Entrambe le braccia. Sembrava che esse seguissero il movimento di una corsa immaginaria. Dopo pochi minuti anche le gambe incominciarono a dimenarsi. Tutto questo durò neanche un minuto, poi più niente, il respiro ancora regolare.
Spalancò gli occhi. Li richiuse. Li aprì di nuovo.
Mosse tutti gli arti e un sorriso appena percepibile si dipinse sul suo volto. Era bella, nonostante i segni della malattia: il pallore, le occhiaie, gli occhi rossi.
Si sedette sul letto, spense il cardiomonitor e si staccò con calma tutti i fili collegati al suo corpo. Si guardò in giro. Trovò la sua borsa, cercò il portafoglio: aveva abbastanza soldi.
Uscì dalla camera, guardandosi intorno. Individuò le infermiere di turno, stavano bevendo un caffè e chiacchierando sommessamente tra loro. Approfittò del momento e si allontanò in fretta dalla sua camera.
Ci mise un po’ ad arrivare all’uscita dell’ospedale senza esser vista. Varcò la porta e si allontanò nella neve.

30 gennaio, h 5.00
Casa di House

Il telefono squillò. House, come al solito, lo lasciò fare.
Scattò la segreteria
“Tra un po’ sentirete un bip. Fate un po’ come volete, se avete tempo da perdere lasciate un messaggio. Tanto non rispondo, né vi richiamo.”
Bip.
“House sono io.” l’inconfondibile voce autoritaria di Lisa Cuddy! House si mise un cuscino sopra la testa.
Lei, come se avesse intuìto il suo movimento, continuò quasi urlando: “Rispondi, è un’emergenza!”
Sapeva che non bastava così poco a convincere House ad alzare la cornetta. Fece un lungo sospiro e aspettò. “La tua paziente non è più nella sua camera. E’ scappata. Con le sue gambe.” Il tono di voce sempre alto, per far sì che lui sentisse anche da sotto il cuscino.
Aveva colto nel segno. House allungò una mano fino al ricevitore. “Impossibile.” disse di saluto alla Cuddy “è più facile che sia volata dalla finestra.” la voce impastata dal sonno...
“Abbiamo le telecamere in questo ospedale House! Camminava, ho controllato di persona.”
“Arrivo.” e riattaccò.

30 gennaio, h 5.45
Ufficio di Cuddy

La Cuddy sentì arrivare House almeno un minuto prima che varcasse la soglia del suo ufficio. Ascoltava molto quello che accadeva intorno a lei, e così aveva imparato a riconoscere le voci, le risate, e anche i passi di chi lavorava nel suo ospedale. Per lui non era difficile, grazie al suo bastone riconosceva la sua andatura anche nel caos dell’orario di visite.
Infatti poche manciate di secondi e House entrò come una furia nel suo ufficio.
“Dov’è quell’idiota che l’ha lasciata scappare?” urlò.
“Calmati.” disse lei, alzando appena lo sguardo dallo schermo del computer.
“Quella donna rischia di morire! Dovresti essere preoccupata anche tu! Non per il fatto che una giovane donna muoia in solitudine in una buia notte invernale, ma perché il tuo ospedale va nella m€rd@ se questo accade.”
Lei lasciò il mouse e posò lo sguardo su di lui.
“Conosco ogni tecnica per catturare tutta la tua attenzione! Mai puntare sulla tua umanità, sempre e solo sui possibili problemi legali per l’ospedale! Ce l’hai già un manuale d’istruzioni? Se no ci penso io a scrivertelo!” continuò House sarcastico.
“Ho già avvisato la polizia. Non sarà difficile trovare una donna in camice d’ospedale e ciabatte in una notte innevata. Sicuramente l’avrà già notata qualcuno, è questione di poche ore e sarà ancora nella sua camera, pronta per soddisfare le tue curiosità su come ha fatto una persona semiparalizzata ad evadere da qui.” Ribattè lei con un sorriso.
“Non ne sono così sicuro.” disse House “Hai avvisato la mia equipe?” chiese.
“Perché avrei dovuto?”
“Come perché?! Perchè loro adorano andare in giro di notte a cercare le pazienti fuggitive! Soprattutto Chase!”
“A proposito di Chase…” approfittò lei.
“Lascia perdere” disse lui voltandosi e avviandosi verso la porta. Poi si fermò, e si voltò.
Lei lo guardò con aria interrogativa.
“Non sono neanche le 6 di mattina..” le disse.
“E allora?” sembrava spaesata.
“Perché mi hai chiamato, Cuddy?”
“Perché…una tua paziente è scappata… Non ti sembra una buona ragione?”
“Non hai bisogno di me, né della mia squadra. Hai chiamato la polizia e sei sicura che loro la trovino a breve. Infatti sei tranquilla per la faccenda della Pivet.”
Fece qualche passo verso di lei. La Cuddy si alzò.
“Ho pensato che…” fermò qui la frase, le mani in grembo, le dita intrecciate. House le guardò per qualche secondo, poi risalì con lo sguardo lungo il suo corpo, arrivando finalmente agli occhi.
“Sei nervosa…” fece ancora un passo verso di lei. “E hai pianto.”
Lei aprì la bocca quasi per dire qualcosa, poi la richiuse.
“Cosa ti affligge dottoressa? Soffri per non essere riuscita a far abbassare i pantaloni a quell’oncologo che da giorni non esce più dal suo ufficio? Devi averlo spaventato a morte…”
Lei tentò ancora di dire qualcosa, ma era sconvolta. House era un b@st@rdo ma non immaginava fino a questo punto. “Gli hai chiesto qualche prestazione strana? Sai, lui è abituato con le donne, se ne porta a letto un sacco. Ma di solito sono malate in fase terminale, quelle si accontentano del repertorio di base.”
Dallo sciogliersi delle mani di lei, da come lentamente le appoggiò alla scrivania, da come si protese verso di lui, House capì che era furiosa.
“Esci immediatamente da qui.” gli disse scandendo bene le parole.
Lui non se lo fece ripetere due volte.

30 gennaio, ore 8.00
Ufficio di House

“Ancora!?” esclamò Foreman entrando e vedendo House coricato sul pavimento, come il giorno precedente.
“Se mi risveglio un’altra volta vedendo la tua faccia come prima cosa giuro che le prendo tutte in una volta!” disse House agitando il suo flacone di Vicodin. Poi ne estrasse una e se la cacciò in bocca.
“Perché qui anche stanotte?”
“La Cuddy aveva bisogno di un amico con cui parlare.” rispose spostandosi verso la lavagna.
Poi prese un pennarello e tirò una riga sulla parola “paralisi”.
“Ha ripreso a muoversi?!” chiese stupito Foreman.
“Esattamente!” rispose House “Cammina perfettamente ed è stata anche in grado di fare il gesto dell’ombrello agli infermieri di turno mentre fuggiva stanotte.”
“Cosa?! E’ scappata?”
“Si. Alla 4 del mattino, vestita solo del camice e di un paio di ciabatte. La temperatura è sotto lo zero, fuori ci sono 15 centimetri di neve e non sembra voler smettere di nevicare.” Disse spostando le persiane col suo bastone per mostrare il cielo bianco a Foreman. “Secondo te quante possibilità ha di arrivare viva a colazione?”
Lui scosse la testa.
“Ah! Dimenticavo! Le ciabatte sono di pelo! Forse questo potrà farci guadagnare qualche ora!” nel sarcasmo di House, Foreman notò una nota di preoccupazione.
Quella paziente rischiava veramente di morire, e non solo per il freddo. Non avevano ancora capito cosa avesse, sarebbe potuto venirle qualunque cosa là fuori. O avrebbe potuto attaccare la sua malattia a qualcuno, nel caso fosse stata contagiosa. Ma non sapevano ancora nulla di certo.
“Ma la Cuddy….” iniziò Foreman,
“La Cuddy ha sguinzagliato un po’ di poliziotti, ed è sicura che le porteranno a breve la preda.”
“Non ne sono così sicuro” disse lui soprappensiero.
“Siamo in due.”
“Siamo in tre.” Intervenne Chase.
“Credi che saresti in grado di scomparire altrettanto improvvisamente di come sei comparso ora?” lo apostrofò House.
Foreman lo fulminò con lo sguardo, che poi rivolse a Chase. “Noi sappiamo dove cercarla” gli disse.
“Bravi, è proprio lì che volevo arrivare.” disse House. “Andate a cercarla.”
“E tu?” chiese Chase.
“Io cosa? Volete andare a caccia con un invalido a seguito?” ribattè House.
“Ha ragione Chase. Cosa rimani a fare in ospedale? Il tuo caso non è più qui! Se la Pivet non salta fuori a breve la Cuddy incomincerà a preoccuparsi e verrà a sfogarsi con te…” disse Foreman.
“Non tentare di convincermi con questi stupidi giochetti.” Ingoiò un’altra pillola. Guardò fuori dalla finestra per qualche secondo poi si avvicinò al suo cappotto. “Ok, ve la siete cercata. Zoppo al seguito. Facciamo che io sono la mente, e quando la trovo, voi fate le gambe e l’acciuffate!”
“Sarebbe un gioco da ragazzi anche per te, inseguire una donna assiderata e con residui di una paralisi” intervenne Cameron, ancora chiusa nel suo cappotto “Allora partiamo?” e fece saltare da una mano all’altra le chiavi della macchina.

Edited by moky78 - 2/12/2006, 20:54
 
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view post Posted on 2/12/2006, 20:55
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.... PUNCTURE!!!!! I WISH I WERE CARMEN ELECTRA..... zio Griss & My Baby forever!

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intervengo solo per dire CAMUFFATE GLI IMPROPERI!!! come abbiamo scritto nel regolamento... LEGGETELO...
 
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°vally°
view post Posted on 2/12/2006, 21:29




Hai ragione scusaaaaaaaaa!!!!!!!
C starò più attenta!
 
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17fede
view post Posted on 7/12/2006, 12:30




Bella!! l'ho appena letta e voglio sapere come va a finire....continua!!
 
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.:cira:.
view post Posted on 7/12/2006, 15:04




Bella, complimenti :) aspetto il continuo !!
 
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°vally°
view post Posted on 7/12/2006, 21:04




CAPITOLO 4

30 gennaio, h 12.50
Princeton Plaisboro Teaching Hospital

La Cuddy salì in fretta le scale e attraversò rapidamente i corridoi dirigendosi all’ufficio di House. Passando di fianco alla sala dell’equipe si accorse che non c’era nessuno. Spalancò la porta ed entrò: tutto in insolito ordine, niente giacche buttate in giro, niente tazze di caffè abbandonate sui tavoli. Solo il feticcio di House, la sua lavagna, e quella parola sbarrata.
Incominciò a temere che non sarebbe riuscita a trovare nessuno dell’equipe in ospedale e, di conseguenza, incominciò ad arrabbiarsi.
Riprese ad attraversare i corridoi, questa volta più rapidamente, tanto che gli infermieri si scostavano bruscamente vedendola passare.
Andò a controllare in laboratorio, sperando di trovare almeno Cameron al lavoro.
Niente.
“Qualcuno ha visto House o qualcuno della sua equipe questa mattina?” quasi urlò a un gruppetto di specializzandi.
“No, dottoressa.” rispose timidamente uno di loro.
Tornò nel suo ufficio e prese il telefono.
Digitò rapidamente il numero di cellulare Cameron. Il telefono squillò a lungo, ma non rispose nessuno.
House, spento.
Foreman non rispose.
Chase idem.
C’era solo una persona che poteva sapere dove fossero finiti tutti.
Posò la cornetta, fece un bel respiro per farsi coraggio e si diresse in fretta all’ufficio di Wilson.

Wilson, dopo quello scarno scambio di vedute con la Cuddy, era tornato nel suo ufficio, aveva chiuso la porta a chiave e si era sdraiato comodamente sulla sua poltrona. Aveva un’ora di tempo prima della prossima visita e aveva bisogno di pensare.
“Sono un idiota” era il pensiero predominante e gli impediva di ragionare sui fatti. Dopo qualche minuto decise di lasciare perdere: ci avrebbe pensato quella sera, magari dopo un paio di birre. Magari avrebbe chiesto ad House di andare da lui, avrebbe riprovato a parlargliene. Gli sembrò una buona idea e andò alla scrivania per chiamare l’amico.
Si sedette e lo vide: un biglietto stropicciato e coperto con l’inconfondibile e illeggibile scrittura di House. Ci mise un po’ a decifrarlo.
“I ragazzi mi portano in gita. Se la Cuddy si accorge che siamo spariti, pensaci tu a distrarla… Se ci sono novità sulla Pivet chiama sul cellulare di Cameron. Andiamo a cercarla.”
In quel momento bussarono alla porta, poi la maniglia si abbassò.
Si era dimenticato di aver chiuso a chiave.
“Chi è?” chiese dirigendosi alla porta.
“Sono io.” disse la Cuddy dall’altra parte.
“Adesso no…” pensò, forse ad alta voce. Per fortuna, lei non sentì.
Aprì la porta e la fece entrare.
“Perché ti sei chiuso dentro?” chiese lei.
“Avevo bisogno di un po’ di tranquillità.” rispose, a disagio, stringendo nel pugno il biglietto di House.
“Scusa allora, ma ho un problema e forse tu mi puoi aiutare. Ho bisogno di parlare urgentemente con Cameron, ma lei, House e gli altri due, non sono in ospedale.”
Wilson cercò di fare un’espressione sorpresa ma dalla faccia di lei capì che era stato poco convincente.
“Hai provato a chiamare?” disse la cosa più ovvia che gli veniva in mente.
“Certo. Non rispondono.” Rispose lei, e lo sguardo le cadde sulla mano di Wilson, nervosamente chiusa a pugno.
Lui, d’istinto, se la portò dietro la schiena.
“Ne sai qualcosa?” chiese lei, avvicinandosi di un passo a Wilson.
“No, niente.” mentì.
“Cos’hai in mano?” si avvicinò ancora di più.
“Niente, spazzatura.” e così dicendo fece per buttare il foglietto nel cestino.
La Cuddy lo prese al volo, lo aprì con cura e incominciò a leggerlo ad alta voce: “I ragazzi mi portano in gita.” fece una faccia perplessa. “Se la Cuddy si accorge che siamo spariti pensaci tu a distrarla…” guardò rapidamente Wilson ma abbassò subito gli occhi ancora sul foglietto, imbarazzata.
Finì di leggerlo silenziosamente, poi lo consegnò a Wilson.
“Mi ha chiamato l’agente che si occupa delle ricerche della Pivet.” disse seria “ha detto che vuole tutte le informazioni che abbiamo qui su quella donna. Devo farlo chiamare da Cameron il prima possibile, ho bisogno di contattarla.”
Wilson si avvicinò al telefono, compose il numero di Cameron e attese. Non rispose neanche stavolta.
“Non risponde.” disse alla Cuddy scotendo la testa.
Lei sembrò persa nei suoi pensieri per qualche secondo, poi disse all’oncologo: “Se House sa qualcosa che la polizia non conosce, e si fa beccare a caccia di quella donna, potremmo passare guai seri.”
“Non mi sembra così grave, è il suo medico. Potrebbero pensare che sia un po’ fuori di testa, ma non farebbe niente di male…” provò a convincerla Wilson.
“No.” disse lei decisa “Quella donna deve avere qualche problema con la legge, la cercano con troppo zelo. Sono faccende che non ci riguardano, dobbiamo starne fuori.” aggiunse.
In quel momento suonò il telefono di Wilson, che rispose subito.
“E’ Cameron?” chiese la Cuddy sottovoce.
“House.” le labbra di Wilson si mossero senza che vi uscisse alcun suono.
Lei allungò una mano per farsi passare la cornetta ma Wilson, appoggiando distrattamente le sue dita sul palmo di lei, gliela abbassò.

30 gennaio, h 12.10
Abitazione della signorina Pivet

Wilson e Chase lasciarono la casa della signorina Pivet.
House e Cameron rimasero nella stanza da letto di quella casa sconosciuta, una di fronte all’altro, a qualche passo di distanza.
“E adesso?” chiese lei nervosamente, rendendosi conto mentre la pronunciava, che una domanda come quella era un invito a nozze per House.
“Facciamo sesso!” disse infatti lui, spalancando le braccia in tono teatrale.
Lei alzò gli occhi al cielo incassando la battuta, ma nel frattempo le si strinse il cuore. Ormai si era resa conto che i suoi sentimenti per House, nonostante la rabbia che lui le faceva, erano ancora forti. Questo suo continuo prenderla in giro, il suo prendersi gioco di Chase, le facevano male.
Le venne da piangere e si odiò per questo. Riuscì a resistere.
“Non è quello che vuoi?” aggiunse House, avvicinandosi di qualche passo.
“No!” disse lei decisa, facendo qualche passo indietro.
“Non ci credo.” insistette lui, avvicinandosi ancora.
Il suo cuore ricominciò a battere troppo velocemente, le venne ancora da piangere e probabilmente, visto l’espressione divertita di House, stava diventando rossa. Il suo corpo non collaborava, non riusciva a controllarlo. Questo la fece arrabbiare ancora di più. House si stava divertendo ad illuderla, a farla arrabbiare, a denudarla di ogni difesa. Che diritto aveva di farlo? La trattava come un’alunna con una stupida cotta per il suo professore, ma lei era una donna. Di questo House, probabilmente, non si era mai accorto.
Con un grosso sforzo di volontà riuscì a riacquistare il controllo di sé.
Fece due lunghi passi e fu di fronte ad House.
L’aveva fatto anche pochi minuti prima, ma questa volta si bloccò a pochi centimetri da lui. Percepì per la seconda volta, quel giorno, che House perdeva per qualche istante la sua imperturbabilità, per riappropriarsene comunque prontamente.
“House, devi finirla di provocarmi, non è divertente.” gli disse seria.
Il sorrisino di lui faceva trasparire, al contrario, che si stava divertendo un sacco, mentre la guardava dall’alto del suo metro e novanta, senza lasciar andare i suoi occhi neanche per un istante.
Si fissarono per qualche secondo senza muovere neanche un muscolo. Questi secondi furono ore per Cameron, che sentiva il gran baccano fatto dal suo cuore, dal suo respiro, dai suoi nervi tesi.
La sua mano si mosse ed andò a posarsi su quella di House, con cui si reggeva al bastone. Sentì in lui un attimo di tensione, ma non poteva allontanarla, o avrebbe perso l’equilibrio e avrebbe dovuto appoggiarsi a lei. Anche se quella mano fosse stata di fuoco, sarebbe bruciato piuttosto che farsi aiutare da Cameron, piuttosto che mostrarle una sua debolezza. Lei lo sapeva, e giocò su questo.
“Questo è mio. Me lo vuoi rubare? Se me lo togli di mano ti cadrò addosso…non ti sembra un modo un po’ subdolo per avermi sopra di te?” le disse non smettendo di guardarla negli occhi.
“Sei un b@st@rdo.” gli disse lei, riuscendo a fatica a non interrompere quel lunghissimo sguardo che la stava divorando. “Sei un b@st@rdo manipolatore, stai giocando con i miei sentimenti e con quelli di Chase. Perché?” fu la domanda più ovvia che le venne in mente, gliela fece in un sussurro.
“Perché mi annoio! Perché riuscire a prevedere esattamente le vostre reazioni ad ogni mio comportamento, mi fa sentire onnipotente! Perché ho sempre la segreta speranza che capiate qualcosa della vita, e la smettiate di…” House sembrava quasi arrabbiato; gesticolava con la mano libera. L’altra non la mosse, la tenne quieta sotto quella di Cameron. “……” lasciò cadere la frase.
“La smettiamo di fare cosa? Di provare dei sentimenti? Di essere felici, tristi, arrabbiati, inteneriti? Di essere umani? Sei incredibile!” Cameron parlò con trasporto, stringendo la mano del suo capo sotto la sua, senza neanche rendersene conto. “Sei convinto che la tua visione della vita è giusta, e che la nostra è patetica e infantile. Ma chi ti credi di essere per venire a insegnare a me come è giusto vivere?! Non sono una bambina, non sono un ragazzina, ho una vita alle spalle di cui tu non sai niente!” era furiosa.
House abbassò lo sguardo e lo posò sulle loro mani. “Mi stai facendo male.” disse, anche se con poca convinzione.
“Sei imbottito di Vicodin dalla mattina alla sera! Hai uno scudo per ogni tipo di dolore. Sei un codardo, non affronti la sofferenza. Neghi il tuo lato vulnerabile, lo scindi dal tuo Io e lo proietti su di me, su di noi. Ciò che non sopporti del mio carattere è quello che non riesci ad affrontare del tuo.” continuò Cameron, ormai gettando addosso ad House le sue parole, come un fiume in piena.
“Oddio, ancora Freud…”commentò lui sarcastico.
“Non è Freud.” ribattè lei.
“Sei pat…”
“E non dire che sono patetica!” questa volta urlò, gli occhi sempre più lucidi. Erano però lacrime di frustrazione, era un qualcosa che si era accumulato dentro di lei nel tempo e che aveva bisogno di essere riversato su di lui.
“Eccolo finalmente.” disse House.
“Cosa?” chiese lei.
“L’odio. La rabbia. Quello che hai dentro e che neghi. Lo scindi dal tuo Io e lo proietti su di me. Dice così il tuo amico strizzacervelli, giusto?”
“Non è odio.” disse lei, ignorando la sua domanda.
“Cos’è allora? Amore?” l’espressione di House tornò ad essere divertita, l’ironia nella sua voce. Quasi disprezzo.
“No, non è neanche amore. Sono emozioni forti. Non so di che tipo…” rispose lei, abbassando per la prima volta lo sguardo. Non lo sapeva veramente. Provò a guardarsi dentro ma era tutto confuso.
Tolse lentamente la mano da quella di House e la lasciò cadere lungo i fianchi.
Era stanca, si sentiva svuotata.
Si sentì stringere la spalla. Era la prima volta che House la toccava di proposito, senza l’intenzione di prenderla in giro.
Rimasero così, vicini. Lei a testa bassa, lui che si reggeva al bastone, con l’altra mano appoggiata a lei.
Le venne ancora da piangere, ma si impose di non farlo e ci riuscì. Il suo corpo incominciava ad ubbidire.
Fece quel passo che la separava da lui, appoggiò la fronte al suo petto e gli passò le braccia intorno alla vita. Lui avrebbe potuto allontanarla, farle qualche battuta sarcastica, deriderla, o qualunque altra cosa. Non le importava, aveva bisogno di quel contatto fisico e se lo prese.
House non disse nulla.
Muovendosi il più lentamente possibile, quasi avesse paura che si rompesse quell’equilibrio tra vicinanza e lontananza tra loro, le fece passare la mano dietro il collo e l’abbracciò. Non la strinse, la tenne e basta. Lo sguardo perso sulla parete bianca.

Squillò il telefono.

Trasalirono entrambi, House scostò bruscamente il braccio da lei, Cameron indietreggiò portandosi la mano alla tasca dei jeans. Estrasse il cellulare e guardò il display.
“E’ la Cuddy…” disse, facendo per rispondere.
“No, non rispondere.” la bloccò lui.
Lei lo guardò con aria interrogativa.
“Ci avrà cercato in ospedale e non ci avrà trovato…” ipotizzò lui. “Ora proverà a chiamare me e troverà il telefono spento…mi fischiano già le orecchie per gli insulti. Proverà con Chase e Foreman, che hanno il mio ordine di non risponderle. Quindi andrà di corsa da Wilson e gli chiedere di chiamarti.” Lei osservò d’istinto il suo telefono. Rimasero così per un minuto abbondante, entrambi con lo sguardo fisso sul piccolo cellulare nella mano di Cameron. Nonostante se lo aspettassero, quando il numero dell’ufficio di Wilson incominciò a lampeggiare sul display e il telefonino incominciò a suonare, trasalirono ancora entrambi.
“Ora rispondo?” chiese lei al suo capo.
“No.”
Lo lasciarono squillare.
Quando smise House interruppe il silenzio, che entrambi percepivano come imbarazzante: “Ora la Cuddy chiede a Wilson se sa qualcosa, lui nega, lei non gli crede ma lascia perdere e se ne va sbattendo la porta. Passamelo.” Disse a Cameron, indicando il telefonino.
Lei glielo passò e lui fece rapidamente il numero dell’ufficio di Wilson, forse l’unico che conosceva a memoria.
“Pronto?” disse lui al primo squillo.
“E’ andata via? Se è ancora lì non dire niente.”
Il silenzio del suo amico gli fece capire che questa volta si era sbagliato: i suoi calcoli sul comportamento umano, per una volta, avevano fatto cilecca.

30 gennaio, h 13.00
Ufficio di Wilson

“Wilson, ho bisogno di parlare con loro, immediatamente!” insistette la Cuddy, mettendoci, questa volta, tutta l’autorità del suo ruolo.
Evidentemente colpì nel segno. “E’ qui, deve parlarvi urgentemente.” disse Wilson al telefono, e senza aspettare la risposta dall’altra parte, passo la cornetta al suo capo.
“House.”
“Mmm…” mugugnò lui dall’altra parte.
“Dove sei?”
“Al luna park, visto che la mia paziente è temporaneamente assente ho portato i bambini a divertirsi un po’.” rispose lui.
“Smettila di dire c@zz@te e ascoltami. Primo: la polizia si sta occupando di trovare quella donna, tu e la tua squadra dovete stare qui, in ospedale, dove posso controllarti! Secondo: la Pivet potrebbe essere pericolosa, probabilmente ha già guai con la polizia, e loro ci hanno chiesto di collaborare nelle ricerche…”
“Appunto! Sono qui apposta!” provò a inserirsi House.
“Stai zitto per una volta! Vogliono tutte le informazioni che abbiamo, non che gli mettiamo i bastoni fra le ruote andando in giro a fare i detective.”
“Veramente abbiamo appena salvato un neonato asmatico. Ma questo non aiuterebbe il tuo ospedale nel difendersi dalle accuse della polizia, quindi non ti interesserà…” ritentò House.
“Un neonato? Spero che ora sia al sicuro in qualche ospedale lì vicino…”
“…”
“House?!”
“Si, Chase e Foreman l’hanno portato in ospedale.” mentì lui, considerandola comunque una bugia a fin di bene.
“Bene. Cameron è con te?” disse la Cuddy arrivando al punto.
“Si, ma aspetta che si sta rivestendo… Eccola!” e passò la cornetta a Cameron, che la prese un po’ intimorita.
Infatti la Cuddy attaccò anche lei: “ House è un irresponsabile, ma ho bisogno che almeno voi, che almeno tu, abbiate un comportamento da…medici! Questo ospedale ha delle regole!”
Wilson, nel frattempo, fece finta di interessarsi a delle cartelle che aveva davanti.
“Si, ma…” tentò di ribattere lei.
“Niente ma. La prossima volta che segui House nelle sue follie ti riterrò pienamente responsabile e sarai sospesa!” la Cuddy si stava sfogando su di lei, sapeva che almeno da Cameron non avrebbe ricevuto nessuna rispostina sarcastica e imbarazzante. Infatti dall’altra parte del telefono ci fu solo silenzio.
“Tu hai fatto l’anamnesi della Pivet, giusto?” chiese all’immunologa, ricomponendosi.
“Si.”
“Devi contattare l’agente Dereck che ha delle domande da farti sulla paziente. Ti lascio il suo numero, chiamalo subito.” detto questo dettò a Cameron il numero del poliziotto; lei se lo annotò rapidamente su un pezzo di carta.
“Va bene.” rispose Cameron.
“Ora prendete la macchina, il treno o l’aereo, o qualunque mezzo abbiate usato per spostarvi fin lì, recuperate Chase e Foreman e tornate in ospedale. Vi voglio nel mio ufficio appena arrivate.” detto questo riattaccò.
Si voltò verso Wilson, che ignorandola di proposito continuò a sfogliare le sue cartelle.
“La prossima volta che House ti lascia un biglietto del genere, scendi nel parcheggio e gli buchi le gomme della moto. Sono stata chiara?”
Lui annuì. La conosceva, aveva bisogno di sbollirsi, ogni discussione adesso non avrebbe portato a nulla di costruttivo.
Lo osservò per qualche secondo, poi si voltò e uscì dalla stanza sbattendo la porta.
In quei minuti Wilson capì due cose: primo, che era terribilmente affascinato da lei. Secondo, che il prossimo bacio avrebbe dovuto sudarselo.

30 gennaio, h 13.05
Automobile di Cameron

“Come ti sembra?” chiese Foreman a Chase, che stava scrutando attentamente il bambino.
“Sta meglio. Respira quasi normalmente. Tra pochi minuti si addormenterà.” rispose lui, guardando in neonato con tenerezza. I bambini così piccoli gli avevano sempre fatto un effetto strano e non capiva perché.
“Jo!” esclamò Foreman ad un tratto.
“Cosa?” disse Chase, guardando fuori dalla macchina.
“Eccola, la vedi?” il neurologo indicò una donna malvestita che camminava in fretta verso la palazzina della Pivet.
“Si, avvisiamo House e Cameron.” detto questo Chase prese il cercapersone e contattò i colleghi.

30 gennaio, h 13.05
Abitazione della signorina Pivet

“Cosa ti ha detto?” chiese House a Cameron appena chiuse la chiamata.
“Che se sparisco ancora dall’ospedale senza avvisarla mi sospende…” rispose lei sconsolata. “Mi ha dato anche questo.” Continuò passando il bigliettino ad House. “E’ il numero dell’agente che segue le ricerche della Pivet. Ha detto di contattarlo subito che deve parlarmi.” House le ripassò il foglietto e Cameron incominciò a digitare il numero sul cellulare.
Stava per far partire la chiamata quando i cercapersone di entrambi si misero a suonare.
Li estrassero rapidamente dalle tasche, guardarono il display e poi si guardarono l’un l’altro.
“Che facciamo?” chiese lei al suo capo.
House riflettè per qualche istante poi si diresse, appoggiandosi sul suo bastone, verso il bagno.
Cameron lo seguì. “E se viene in bagno?” chiese lei.
“Voglio parlarle, ma non voglio che abbia noi davanti nel momento in cui si accorgerà che il suo bambino non è più qui. Non potrei sopportare di essere oggetto di un altro sfogo d’ira oggi, il tuo mi è bastato.” le rispose.
Lei ignorò la frecciatina, e si chiuse la porta del bagno alle spalle.
“Guarda un po’ se dal buco della serratura si vede qualcosa.” le disse, ingoiando al volo una pillola di Vicodin.
“Si, si vede l’ingresso della camera.”
“Bene.” House trovò l’armadietto dei medicinali e incominciò a frugarci dentro.
“Cosa fai?” chiese lei, voltandosi ripetutamente tra House e lo spioncino della porta.
“Qui si possono trovare un sacco di cose utili!” rispose, mettendosi un paio di flaconcini nella tasca della giacca.
Ad un certo punto sentirono aprirsi la porta d’ingresso ed entrambi rimasero immobili.
Si sentirono dei passi affrettati, che passarono accanto a loro e proseguirono verso la camera.
Con un gesto House fece capire a Cameron che doveva osservare cosa stava succedendo dal buco della serratura.
Lei vide passare la donna ancora davanti a loro, questa volta con un’andatura che esprimeva il panico che si stava impossessando di lei. “Matthew!” gridò infatti, dalla cucina. Incominciò a piangere. Cameron la vide avvicinarsi velocemente alla porta del bagno e fece appena in tempo a scostarsi, quando Jo la spalancò.
Il panico era visibile nei suoi occhi. Rimase immobile a guardarli per qualche secondo.
“Dov’è mio figlio?” urlò poi loro.
“Si calmi signora.” tentò lei, visto che House non apriva bocca.
“Ridatemi mio figlio!” fece per scagliarsi contro di lei, ma House la bloccò alzando il suo bastone.
“Suo figlio sta bene e lo rivedrà presto.” disse alla donna, con un tono di voce che a Cameron fece venire la pelle d’oca, ma che riuscì a sedare Jo.
“Siete poliziotti?” chiese lei, con odio negli occhi.
“No, siamo i medici della signorina Pivet.” rispose House “Siamo venuti a cercarla perché è scappata dall’ospedale, ed è molto malata. Rischia di morire.”
Lei lo osservava con gli occhi spalancati.
“Abbiamo trovato suo figlio. Aveva un attacco d’asma. E’ allergico al pelo di gatto. Ora è con altri medici, e sta meglio.”
“Lo voglio vedere! Me lo porteranno via!” disse Jo, più tranquilla ma ancora spaventata.
“Riavrà il suo bambino, e pure le medicine per l’asma, se ora collaborerà.” continuò lui. “ La signorina Pivet è venuta da lei dopo che è scappata dall’ospedale, mi deve dire dov’è.”
“Sta bene.” disse lei come in trance “Non ha bisogno di voi.”
House e Cameron si guardarono per un istante, perplessi.
“Ha un grave disturbo signora…”
“Jo.”
“Jo. Si è ripresa stanotte, ma è solo un miglioramento temporaneo. Potrebbe sentirsi ancora male da un momento all’altro e se non sarà soccorsa subito potrebbe morire.” provò a spiegarle Cameron.
“Non morirà. Non può accadere. Dovete credermi.” insistette lei.
“Jo.” House richiamò l’attenzione su di lui. “Non si tratta di credere o non credere. Io voglio trovare quella donna, tu vuoi riabbracciare il tuo bambino…” lasciò cadere la frase.
Jo spostò lo sguardo su Cameron, così carico di dolore e confusione che quest’ultima non riuscì a reggerlo.
“Vi porterò da lei.” disse Jo, come se quelle fossero le ultime parole di una grave presa di decisione. “Ma solo quando avrò il mio bambino tra le braccia.” detto questo avvicinò le braccia al corpo, come se stesse dondolando un bambino invisibile, e incominciò a cantare una ninnananna sottovoce.
Cameron guardò House con aria interrogativa, lui fece spallucce: probabilmente Jo era un po’ suonata.
Questa scena mise però, addosso a Cameron, una strana inquietudine.
“Scendiamo.” disse House dirigendosi fuori dal bagno, verso la porta d’ingresso.
Le due donne si guardarono per un istante poi, senza dire una parola, lo seguirono fuori dall’abitazione.
 
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°vally°
view post Posted on 10/12/2006, 10:56




CAPITOLO 5

30 gennaio, h 13.15
Automobile di Cameron

“Non è il caso che saliamo a dare un’occhiata?” chiese Chase al collega, visibilmente preoccupato.
“Aspettiamo ancora un paio di minuti, non credo avranno grossi problemi, Jo è una donna tranquilla.” rispose Foreman.
“Lo dici basandoti su un unico incontro con lei?! A me non sembrava tanto a posto.” insistette Chase.
“Si che ti è sembrata a posto, solo che non riesci ad andare oltre i tuoi pregiudizi che ti fanno vedere le persone di strada come gente pericolosa…Comunque c’è House con lei, con Cameron intendo; non le succederà niente.” ribattè il neurologo rivolgendo un sorrisino malizioso al collega.
“Grazie, ora sono più tranquillo…” rispose lui, stando al gioco.
Poi l’attenzione di entrambi fu richiamata da House, che si stava dirigendo verso di loro, camminando a fatica nella bufera di neve. Pochi passi dietro di lui c’era Jo, che lo seguiva docile. Alle spalle di lei, Cameron stretta nel suo cappotto.
“Hai visto? Tutto liscio.” disse Foreman, facendo per scendere dalla macchina. Cameron gli fece gesto di rimanere al posto di guida. Salì dietro di lui dicendo: “Guida tu, per favore.” con voce stanca. Lui si voltò e la fissò qualche secondo. “Sto bene!” rispose lei alla domanda che Foreman le stava facendo con gli occhi; poi prese in braccio il bambino che dormiva, esausto, sul sedile posteriore, raggomitolato nella coperta.
Chase scese dall’auto, tenne aperta la portiera ad House, e aspettò che Jo salisse in macchina. In quei pochi istanti House fece in tempo a fare l’occhiolino al collega e a dirgli in un soffio “E’ fantastica.” prima di scivolare sul sedile anteriore. Un moto di rabbia prese Chase per l’ennesima volta quel giorno, ma si aspettava una provocazione del genere, quindi si sforzò di rimanere calmo.
Appena entrata in auto, Jo prese il bambino dalle braccia di Cameron e se lo strinse al petto piangendo sommessamente. Chase si sistemò al suo fianco e, chiudendo la portiera, disse: “Tra un po’ le strade saranno impraticabili, dobbiamo muoverci.”
House si voltò verso Jo : “Allora?” le chiese.
“Torniamo verso il Brian’s Market.” disse a Foreman, che partì rapidamente.

30 gennaio, h 13.15
Luogo indefinito.

Circa mezza dozzina di persone erano raggomitolate intorno ad un fuoco. Intorno a loro, le pareti di un vecchio fabbricato abbandonato, probabilmente un’industria o qualcosa di simile.
L’odore della legna bruciata si confondeva con la puzza di umido che quelle vecchie pareti sprigionavano.
La signorina Pivet era seduta in mezzo agli altri, l’unica vestita con abiti classici in mezzo a persone vestite di stracci. Guardava fisso il fuoco, senza quasi sbattere gli occhi, come in trance. Quest’unica luce che la illuminava le dava un’aria spettrale, ma la sua bellezza non ne veniva sopraffatta.
La forza ipnotica che il fuoco aveva sulla Pivet, era esercitata da lei stessa sugli uomini e donne che le stavano accanto. Lei catturava i loro occhi allo stesso modo, ogni suo minimo movimento faceva trasalire quelle persone.
Il tremore alla mano era ripreso da ormai quasi un’ora, e se lo sentiva salire lungo il braccio.
Ad un certo punto incominciò a muovere impercettibilmente le labbra, come se stesse pregando. Lo stesso fecero le persone accanto a lei, senza mai distoglierne lo sguardo.
In pochi secondi un canto sommesso si alzò dal gruppetto attorno al fuoco. Una melodia struggente.
Le altre due donne sedute attorno al fuoco erano visibilmente incinte. Per una il parto non doveva essere lontano. C’erano poi due uomini avanti con l’età, e un ragazzino che avrà avuto suppergiù 12 anni. Quest’ultimo stringeva tra le mani una strana sostanza…era placenta.
Lentamente la mano della donna in avanzato stato di gravidanza si mosse e si appoggiò dolcemente sul ginocchio del ragazzino. Lui si voltò per guardarla. La donna, senza dire niente, indicò la mano della Pivet, che tramava in modo sempre più violento.
Il ragazzino smise di cantare, si alzò, e si diresse verso la donna. Le si sedette accanto e le toccò una spalla. Lei si voltò verso di lui e gli sorrise. “Mamma, la tua mano.” le disse, posandoci sopra la sua.
“Non ti preoccupare Elliot, tra poco starò meglio.” rispose lei.
Detto questo prese la placenta dalla mano del ragazzo e la se la posò sul cuore. Il canto si interruppe e Elliot tornò al suo posto.
Con una mano prese il braccio opposto e se lo mise in grembo; un lampo di tristezza attraversò i suoi occhi. Ormai erano mesi che era paralizzato.

30 gennaio, h 13.30
On the road

“Dove stiamo andando?” chiese Chase alla donna seduta accanto a lui, che stava allattando il neonato.
“Da loro.” rispose lei, prestandogli poca attenzione.
Chase incrociò lo sguardo perplesso di Foreman nello specchietto retrovisore.
Poi guardò Cameron, che stava fissando la neve che cadeva, fuori dal finestrino.
Desistette e si appoggiò sconsolato al sedile.
“Giri a destra dopo quel palazzo rosso.” disse Jo rivolta a Foreman, dopo qualche minuto.
Lui ubbidì, e si ritrovarono in una via più stretta.
“Alla seconda via dovrà voltare a sinistra, e poi lascerete lì la macchina. Bisogna proseguire a piedi.” continuò lei.
D’istinto, tutti e quattro guardarono fuori dai finestrini: la neve cadeva sempre più fitta.
“E’ un breve tratto, non preoccupatevi.” li rassicurò Jo.
Visto il freddo che penetrava anche nell’auto, nonostante fossero in cinque, stretti l’uno all’altro e col riscaldamento acceso, l’idea di avventurarsi là fuori non piaceva a nessuno.
“Io resterò in macchina col bambino.” fu ancora Jo a rompere il silenzio.
“No, tu e il bambino venite con noi.” rispose House, e la durezza delle sue parole non ammetteva replica.
Foreman seguì le indicazioni della donna e si ritrovarono in una via sterrata.
Spense la macchina quando la strada terminò, bloccata da una vecchia sbarra arrugginita.
Si apprestarono a scendere.
“Ehi, fermatevi un attimo!” esclamò ad un tratto Chase.
Tutti lo guardarono aspettando che si spiegasse.
“Ma cosa ci facciamo qui?!” continuò, osservando principalmente Foreman, l’unico da cui si aspettava un minimo di attenzione. “Siamo medici, dobbiamo curare la gente. Questo non vuol dire che dobbiamo andare a caccia di pazienti nelle case stregate!”
“Resta qui se hai paura.” gli disse Cameron con tranquillità.
“Non ho detto che ho paura!” replicò lui irritato. “Ho detto solo che non ha nessun diritto di trascinarci nelle sue pazzie!”
“Stai parlando di me?” chiese House spuntando rapido dal sedile anteriore. “Sai…mi fischiavano le orecchie. Veramente, è tutto il giorno che mi fischiano le orecchie.”
“Se la Cuddy si accorge che siamo spariti rischiamo la sospensione!” continuò Chase guardando Foreman e Cameron, che abbassò lo sguardo “Tu no, sei il suo cocchino” si rivolse ad House “ma noi non abbiamo nessuno che ci para il cul0! Non siamo assicurati e”
“Finiscila!” lo interruppe House “Mi stai facendo venire il mal di testa, smettila di piagnucolare. Andiamo.” concluse scendendo dalla macchina.
Gli altri fecero lo stesso.
Chase si parò di fronte ad House: “Me la paghi.” Gli disse prima di allontanarsi dietro a Jo.
“Non vedo l’ora…” fece in tempo a rispondergli il suo capo.
Cameron, dall’altro lato dell’auto, li guardava preoccupata.
Jo, con il bambino in braccio, fece strada ai medici, che la seguirono arrancando, in silenzio, fino a una vecchia fabbrica abbandonata.
“Fa venire i brividi.” commentò Cameron rivolta a Foreman, che le era stato accanto per tutto il tratto di strada. Lui annuì, senza distogliere lo sguardo dalla costruzione.
“Forse Chase non ha tutti i torti.” le disse, stando attento a parlare a bassa voce.
“Mi fischiano ancora le orecchie!” urlò House, notando i due colleghi parlare a bassa voce.
“Shhh” fece Jo “Sono là dentro.” e indicò una porta arrugginita.
Ad un certo punto si sentì un rombo crescente provenire dalla via sterrata che avevano appena percorso.
D’istinto, Jo si strinse il bambino al cuore e si guardò subito attorno, cercando una sicura via di fuga. House l’afferrò per un braccio, per impedirle di scappare.
“E’ la polizia!” disse lei “Porteranno via il mio bambino. Vi ho portato da lei, ora lasciatemi andare.” La neve fitta che cadeva impediva ad House di vedere chiaramente i lineamenti della donna, ma dalla voce capì che era nel panico. Se non l’avesse lasciata probabilmente sarebbe diventata violenta.
Mollò la presa sul braccio della donna e lei sparì in pochi secondi, in mezzo alle sterpaglie.
Nel frattempo il rumore confuso, era diventato il rombo distinto di due moto; in pochi secondi furono visibili anche le luci delle sirene che si riflettevano sul bianco della distesa di neve. “Cosa facciamo?!” chiese Foreman, che incominciava a preoccuparsi per le possibili conseguenze in ospedale, se li avessero trovati lì.
“Non devono trovarci.” rispose House, e incominciò a camminare nella direzione che aveva preso Jo pochi secondi prima.
I tre medici si guardarono.
Era un’idea folle, ma l’unica che la paura crescente permise loro di partorire: seguirono in fretta il loro capo.

30 gennaio, h 17.00
Ufficio di Wilson

Suonò il telefono.
“Pronto” rispose lui, dopo pochi squilli.
“Pronto proprio a tutto?” il tono ironico di House non riuscì a nascondere l’affaticamento nella sua voce.
“Cos’è successo?” chiese Wilson allarmato.
“Non vado più in gita coi ragazzi. Non hanno rispetto per le persone disabili…” House fu interrotto da un “per favore” supplicato da Cameron, probabilmente accanto a lui.
“Sei con Cameron?” chiese Wilson all’amico, cercando di capire la situazione.
“Si, anche con Chase e Foreman purtroppo, non si può mai avere un po’ di privacy…” questa volta si sentì un trambusto notevole dall’altra parte del telefono, House protestò qualcosa e, dopo qualche istante, la voce di Cameron raggiunse l’oncologo.
“Wilson, sono io.” Cameron sembrava agitata. “Ascoltami attentamente. Siamo al Leonardo Cafè, a circa un chilometro dall’ospedale. Siamo fradici e congelati. La mia macchina è rimasta in una stradina abbandonata, siamo dovuti scappare dalla polizia, siamo riusciti a trovare un taxi solo dopo aver camminato per quasi un’ora e il taxi ci ha lasciato mezz’ora fa a minimo tre chilometri da qualsiasi cosa.” disse in un soffio. “Le strade sono impraticabili, non abbiamo modo di tornare a casa e se ci presentiamo conciati in questo modo in ospedale, è la buona volta che la Cuddy ci licenzia in tronco tutti e quattro…”
Wilson, che l’aveva vista poco prima aggirarsi furiosa per i corridoi, non si sentì di darle torto.
“…” Cameron lasciò cadere la frase.
“Cosa devo fare?” chiese Wilson.
“Non lo so” rispose lei quasi piangendo. Era stravolta.
“Io avrei una soluzione!” si sentì esclamare House accanto a lei.
La cornetta fu ancora nelle sue mani e Wilson sentì chiara la voce dell’amico. “Siamo proprio a qualche minuto da casa tua…” disse all’oncologo.
Wilson sospirò. “Va bene. Vengo a piedi, se no rischio di rimanere bloccato anch’io. Ci vediamo tra mezz’ora a casa mia.”
Riattaccò e incominciò a pensare a una buona scusa per la Cuddy.

30 gennaio, h 17.10
Ufficio della Cuddy

Lisa Cuddy era preoccupata: da ore non aveva notizie di House e della sua equipe, e neanche dall’agente Dereck. Queste due cose assieme non la rendevano tranquilla.
Sarebbe volentieri andata da Wilson, per parlare un po’ con lui, ma vista la situazione degli ultimi giorni, non se la sentiva di chiedere il suo aiuto.
Era arrabbiata e nervosa.
Questo le permise però, forse, di tenere per un po’ la mente lontana dalla malattia di suo papà.
Decise di chiamare il poliziotto.
“Pronto.” rispose la voce dura dell’uomo.
“Buonasera agente Dereck, sono Lisa Cuddy del Pla…”
“La stavo per chiamare dottoressa.” la interruppe lui, e il tono con cui lo fece bastò ad agitare ancora di più la Cuddy.
“Ho due notizie, una brutta e una bella.” continuò il poliziotto. “Quale vuole sapere prima?”
Aveva sempre odiato quella domanda.
“La bella.” rispose subito, non sarebbe stato in grado di reagire a una brutta notizia in quel momento; aveva bisogno di una boccata di positività.
“Abbiamo trovato la donna.”
“Benissimo!” esclamò rincuorata.
“E’ in arresto, ma ha bisogno di cure. A breve sarà in ospedale, ma sarà tenuta sotto controllo dai nostri agenti 24 ore su 24.”
“Va bene.” Rispose lei, aveva già affrontato procedure del genere e le sarebbe bastato poco per organizzare l’ospedale per l’accoglienza della paziente. A parte il fatto che mancavano i suoi medici…
“Manca la brutta.” l’agente Dereck si intromise nei suoi pensieri.
“Mi dica.”
“Allison Cameron è una delle dottoresse che si occupavano della paziente giusto? Quella che doveva contattarmi per parlare dell’anamnesi?”
“Si. Le ho lasciato il suo numero ore fa, non l’ha contattata?” chiese la Cuddy stupita. Cameron era una delle persone più efficienti e attenta alle regole dell’ospedale, le sue pecche erano dovute solo alla vicinanza di House…
“No. Sa dov’è adesso?” chiese impaziente il poliziotto.
“A casa credo. Oggi non è potuta passare in ospedale, credo si sentisse poco bene.” mentì lei.
Si accorse che fuori dalla porta, Wilson le stava facendo dei gesti. Le chiedeva se poteva andare a casa, perché si sentiva poco bene. Lei annuì distrattamente, aveva altro di cui occuparsi in quel momento.
“Non è rimasta a casa, dottoressa Cuddy. Abbiamo trovato la sua automobile a qualche centinaio di metri dal luogo di ritrovamento della Pivet.”
La Cuddy appoggiò la fronte a una mano e chiuse gli occhi. Temeva di sentire il resto.
“Ma non c’era traccia di lei nella vecchia fabbrica dove abbiamo trovato la paziente. I casi sono due: o la vostra dottoressa è complice della Pivet, o si trovava in quel luogo per qualche motivo, e in quel caso voglio una spiegazione dettagliata di quello che è successo oggi, tutti i movimenti di Allison Cameron, e…”
“Cameron non è complice di nessuno!” lo interruppe la Cuddy, poi abbassò la voce e cercò di spiegare la situazione all’agente. “Credo che i dottori che avevano in cura la signorina Pivet siano andati a cercarla, e che probabilmente, a questo punto, l’abbiano rintracciata. Non avevano idea delle sue attività fuorilegge, così come non ne avevo idea io.”
“I suoi medici sono andati in giro a cercare la paziente?! E lei glielo ha permesso?! Le avevo detto di farmi avere qualunque informazione…” Dereck era arrabbiato.
“Senta, ha perfettamente ragione. Io non sapevo nulla della loro iniziativa, né delle informazioni che avevano a disposizione per rintracciare quella donna. Sono ottimi medici, ma hanno qualche problema di…” non le venivano le parole, era seriamente preoccupata per le possibili conseguenze che l’ospedale poteva subire a causa di questo casino.
“…disciplina?” Dereck completò la sua frase.
“Diciamo di si.” disse lei sospirando.
“Le credo, sono certo che quella dottoressa non c’entra nulla, ha la fedina penale pulita ed è lontana dai giri di quella gente. Avrò però bisogno di parlare con lei e con gli altri medici. Anche con lei, dottoressa. In serata arriverà la signorina Pivet con degli agenti di scorta. A causa delle strade impraticabili, sarà necessaria ancora qualche ora. C’è già un medico con lei, comunque.
Domani mi presenterò al Princeton Plaisboro Teaching Hospital per parlare con tutti voi di persona. Vedete di farvi trovare. Sono stato chiaro?”
“Si.” rispose la Cuddy.
“Bene, a domani dottoressa.” e riattaccò.
Cercò di mantenere la calma.
Per prima cosa doveva dare agli infermieri le istruzioni per l’accoglienza della Pivet e della sua scorta.
Chissà cosa aveva mai fatto quella donna…
Poi doveva assolutamente rintracciare House e tutta la sua equipe. Dovevano essere in ospedale nel momento in cui la paziente sarebbe arrivata e anche l’indomani. Li avrebbe costretti a rimanere tutta la notte, a costo di chiuderli a chiave nel suo ufficio e controllarli di persona.
Rincuorata di avere un piano d’azione, si avviò verso la reception.

30 gennaio, h 17.45
Abitazione di Wilson

Wilson girò nella sua via e, appena vide in lontananza i colleghi, fermi davanti all’ingresso del suo palazzo, affrettò il passo.
Le loro condizioni erano davvero pietose. Tutti e quattro erano completamente bagnati, Cameron aveva i capelli appiccicati al viso e le labbra blu. L’aspetto degli altri non era migliore.
“Voi siete matti.” disse aprendo in fretta il portoncino e guardando torvo House. La colpa era, come sempre, principalmente sua.
Stranamente lui non rispose nulla, si limitò ad entrare faticosamente nel palazzo. Quei chilometri, per lui, erano stati molto più faticosi che per gli altri.
L’appartamento che occupava da solo, ormai da quasi un mese, era al piano terra di quella palazzina. Aprì in fretta la porta e fece entrare i medici.
“Vi cerco dei vestiti puliti.” per prima cosa dovevano togliersi di dosso quegli stracci bagnati.
“Grazie mammina.” House ci mise poco a riprendersi. “Per prima cosa, però, occupati della dottoressa Cameron che non ha un bell’aspetto…”
Wilson si rivolse a Cameron: “Vieni con me.” le disse, e la precedette in bagno.
Aprì l’acqua della doccia e prese un asciugamano.
“Questo è pulito. Fatti una doccia calda, sei quasi assiderata.”
Lei annuì tremando.
“Non ho vestiti da donna…cerco qualcosa che ti puoi mettere. Stendi i tuoi abiti sul calorifero intanto, si asciugheranno in fretta.”
Lei annuì ancora senza dire una parola.
“Sicura che stai bene? Posso lasciarti sola o…vuoi una mano?” Wilson era imbarazzato a chiederglielo, ma l’aspetto di lei era davvero preoccupante.
“No, è ok.” rispose lei con un filo di voce, dalle labbra tremanti.
“Ok.” disse lui sollevato, e uscì dalla stanza chiudendo la porta.
Andò in camera da letto e prese dei maglioni e qualche paio di pantaloni; poi tornò dagli altri tre.
“Cercate qualcosa che vi venga.” disse, passando i vestiti ai suoi colleghi. “Vado a preparare qualcosa di caldo.” si allontanò verso la cucina.
“Ordina delle pizze!” gli urlò dietro House, poi prese un paio di pantaloni e un maglione e andò a cambiarsi in camera di Wilson. “Non mi piacciono le occhiate da spogliatoio.” mugugnò agli altri due, uscendo dalla stanza.
“Se non ci prendiamo una broncopolmonite questa volta…” bofonchiò Chase, levandosi i vestiti inzuppati.
“Io, appena riesco a trovare un taxi disposto ad avventurarsi in mezzo alla neve, me ne torno a casa.” disse Foreman categorico, scegliendo un maglione pesante dal mucchio di abiti.
Wilson mise a bollire dell’acqua per il tè, poi si avvicinò alla porta del bagno.
Bussò lievemente. “Cameron, tutto ok?”
Non rispose.
“Allison? Ci sei?” insistette.
Si sentiva solo lo scrosciare dell’acqua nella doccia.
Aprì di poco la porta e dette un’occhiata dentro.
Cameron si era tolta cappotto e scarpe, ed era raggomitolata per terra, ancora coperta dai suoi abiti bagnati.
Entrò e si chiuse la porta alle spalle.
“Stai male?” le chiese apprensivo avvicinandosi.
“No.” disse lei debolmente “Ho freddo, e sono stanca.”
“Devi toglierti questa roba, se no non ti scaldi.”
Lei non rispose, la testa appoggiata al muro dietro di lei.
“Non ci riesci?” chiese lui titubante.
“Ho freddo.” riuscì a rispondere lei in un soffio, ricominciando a tremare.
Wilson si guardò in giro imbarazzato, non sapeva cosa fare.
“Torno subito.” le disse, e uscì in fretta dal bagno.
Raggiunse gli altri in salotto, House si era cambiato. I suoi pantaloni gli stavano un po’ corti e anche il maglione era piccolo. Era decisamente buffo, ma preferì non commentare.
I tre medici lo guardarono con l’aria interrogativa.
“Cosa c’è?” gli chiese Chase.
“C’è bisogno di qualcuno che spogli Cameron.” disse lui in fretta, indicando confusamente la porta del bagno.
Gli altri tre si guardarono perplessi.
“Qualcuno deve aiutarla, è paralizzata dal freddo, credo abbia la pressione sotto le scarpe…” continuò lui.
House e Chase si guardarono, ma nessuno si mosse.
“Allora?” disse Wilson.
“E’ una delle scene più patetiche che abbia mai visto.” disse House muovendosi verso la porta.
Suonarono alla porta.
“Le pizze!” esclamò Foreman, aprendola.
“Non le ho ordinat…” tentò di dire Wilson, ma si bloccò quando si trovò davanti la Cuddy, visibilmente irritata.
“Io vado da Cameron!” disse in fretta Chase, superando House, entrando in bagno e chiudendosi la porta alle spalle.
La Cuddy entrò in casa e si chiuse lentamente la porta alle spalle, senza staccare gli occhi da House.
“Questa volta ti licenzio…” disse minacciosa. “Sei un…” quando era molto arrabbiata faceva fatica a trovare le parole, cosa che House sapeva e di cui si approfittò immediatamente.
“Raggio di sole!” le disse andandole incontro sorridente.
“Non ci provare! E trova dei vestiti della tua taglia.” gli rispose lei acida, spostandosi verso Wilson.
“Cosa state combinando? Siamo nella m€rd@, lo sapete? Domani verrà la polizia, vogliono interrogarci. Questa volta non ve la faccio passare liscia. Tu devi controllarlo!” disse a Wilson, indicando House. “Non devi parargli il cul0 quando fa le sue pazzie!”
“Mamma, papà, non litigate!” si intromise House, piagnucolante.
Foreman si lasciò cadere sul divano, coprendosi il viso con le mani. “Sono tutti pazzi…” disse tra sé e sé.

Nel frattempo Chase era entrato in bagno e si era avvicinato a Cameron, che non aveva neanche aperto gli occhi.
“Ti do una mano.” le disse, incominciando a sfilarle il maglione.
Lei lo lasciò fare.
“Ehi, ci sei?” gli sembrava poco presente.
“Sono stanchissima Chase, ho la pressione bassa e”
“Ok, ok, non parlare.” le scostò i capelli appiccicati al viso e la guardò per qualche secondo.
Era bellissima. Probabilmente non ne era innamorato, ma sarebbe rimasto a guardarla così per ore.
Era…bellissima, l’unica parola che gli veniva.
Glielo disse.
“Chase, non è il momento…” ribattè lei.
“Lo so, scusa. E’ che…” incominciò a sbottonarle la camicia. “…posso?” si fermò un attimo.
“Si, toglimi questa roba gelida, e in fretta.” la voce di Cameron era debolissima.
“Avrei preferito sentirmi dire queste cose da te in un altro momento…” scherzò lui.
“Non è divertente, sto congelando.”
“Scusa.”
Le tolse la camicetta.
La porta si aprì ed entrò la Cuddy.
“Fuori di qui.” disse sgarbata a Chasse “L’aiuto io.”
Conoscendola, decise di ubbidire senza opporsi.
“Ok…” si alzò e lasciò la stanza.
La Cuddy aiutò Cameron a spogliarsi e ad entrare in doccia.
“Non ho chiamato il poliziotto.” accennò lei.
“Dopo ne parliamo, ora cerca di riprenderti.” la interruppe cercando di apparire dura. In quel momento però, Allison le faceva solo tenerezza.
Sapeva cosa significava provare quell’adorazione per House, e non riusciva rimproverarle il suo seguirlo senza riserva.
“Resti qui ancora qualche minuto? Non sto ancora molto bene.” le chiese Cameron prima di entrare in doccia.
“Va bene.” Rispose la Cuddy, prendendo i suoi abiti fradici e sistemandoli sul calorifero.

Nell’altra stanza, nel frattempo, i quattro uomini stavano cercando di tranquillizzarsi.
L’arrivo improvviso della Cuddy aveva destabilizzato un po’ tutti, e c’era un clima di nervosismo.
“Questa volta passeremo dei guai seri.” disse Foreman con voce grave. “E’ inc@zz@t@ come una iena, domani verrà la polizia, e dobbiamo avere anche la lucidità di occuparci della paziente.”
“La Cuddy è l’ultimo dei nostri problemi.” disse House. “Intendo di noi tre.” continuò rivolto a Wilson. “Nel tuo caso, è diverso.”
“Grazie.” disse il suo amico, con un sorriso forzato.
“Perché?” chiese Chase rivolgendosi all’oncologo.
“Lascia perdere.” rispose lui.
Suonò il cellulare della Cuddy.
I quattro medici si guardarono.
“Che facciamo?” chiese Foreman.
House prese il telefono. “E’ l’ospedale.” disse passandolo a Wilson.
Rispose, allontanandosi dal gruppo.
Dopo pochi secondi ritornò.
“Hanno chiamato per avvisare che tra meno di un’ora la paziente sarà in ospedale. Dobbiamo tornare lì, e in fretta.”
Si sentì fischiare il bollitore dell’acqua.
“Neanche il tempo per un tè?” chiese House.
Tutti e quattro si alzarono contemporaneamente e si diressero in cucina.



 
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+Marty24+
view post Posted on 10/12/2006, 12:39




bella.....complimenti sei veramente
brava
 
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17fede
view post Posted on 10/12/2006, 13:15




Bellissima!! Ancora..ancora...la voglio f :AngelStar02: :AngelStar16: :AngelStar16: inire!!
 
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°vally°
view post Posted on 10/12/2006, 21:02




CAPITOLO 6

30 gennaio, h 18.30
Abitazione di Wilson

Wilson bevve il suo tè, poi andò a controllare come stava Cameron.
Bussò alla porta del bagno, che si aprì leggermente.
La Cuddy avvicinò il viso allo spiraglio della porta, Wilson, dall’altra parte, fece altrettanto.
“Cosa c’è?” chiese lei, ancora stizzita.
“Come sta?” volle sapere Wilson.
“Meglio.” si limitò a rispondere lei.
I loro visi erano a pochi centimetri di distanza. Wilson abbassò lo sguardo sulle labbra della donna, involontariamente. Appena se ne rese conto, lo riporto ai suoi occhi.
Lei aveva colto questo riferimento implicito al loro bacio, e le fece piacere. Ma era ancora arrabbiata con lui, con tutti quanti, quindi cercò di trattenere il sorriso che le saliva spontaneo alle labbra.
“Gli altri stanno bene?” chiese lei per rompere quell’imbarazzante silenzio.
“Si, solo un po’ infreddoliti. Ascolta, ha chiamato l’ospedale. Tra poco arriverà la Pivet, bisogna tornare indietro.”
La Cuddy si guardò l’orologio al polso. “E’ presto, Dereck mi ha detto che ci avrebbe messo qualche ora.”
“Da quello che ho capito, la bufera si è calmata, e la stanno portando in elicottero.”
La Cuddy si voltò verso Cameron, avvolta nell’asciugamano: sembrava stare meglio, ma non se la sentiva di farla tornare subito a lavoro.
“Va bene.” disse a Wilson. “Per favore, prendimi qualcosa di caldo da far mettere a Cameron, è meglio che si metta un po’ a letto, è molto debole. Puoi ospitarla per qualche ora?”
“Certo.” rispose lui.
“Bene.” disse lei chiudendo la porta.
“Noi torniamo in ospedale, tu resti qui.” disse, rivolta a Cameron.
“Ce la faccio a tornare…” tentò di opporsi lei.
“No.” la bloccò la Cuddy decisa. “Domani avrai una giornata molto intensa, ti voglio al massimo della lucidità. Resterai qui qualche ora a riposarti, poi ci raggiungerete in ospedale.”
“Raggiungerete?” chiese Cameron.
“Si, House resta qui con te. Non posso farvi entrare in ospedale conciati così…” disse indicando gli abiti di Cameron, ancora inzuppati, appesi alla rinfusa al calorifero.
“Chase e Foreman si occuperanno di fare tutti gli esami alla Pivet, e quando li raggiungerete ragionerete insieme sul da farsi.” il tono della Cuddy non ammetteva replica.
Wilson bussò alla porta, e passò dei vestiti alla Cuddy: “Provate con questi, a me stanno piccoli.”
“Ce la fai a vestirti, Allison?” chiese alla dottoressa, facendo per uscire.
Lei annuì e la Cuddy raggiunse gli altri in cucina.
“Tu e Cameron restate qui.” disse ad House, che aveva chiuso gli occhi e sembrava stesse dormendo, appoggiato alla sedia.
“Perché?” chiese lui, confuso dal sonno.
“Lei deve riposarsi, e tu sono due notti che passi in ospedale. Devi dormire qualche ora, non saranno giorni facili i prossimi. In più…” lo indicò. “…i tuoi vestiti…”
House si guardò i pantaloni. In effetti, era abbastanza ridicolo.
“Vi lascio qualche ora. Aspettiamo che si asciughino i vostri vestiti e che riposiate un po’. Noi pensiamo all’accoglienza della paziente e a tutti gli esami.” continuò rivolta a Chase e Foreman.
Loro annuirono.
“Bene,andiamo.”
Prese il suo cappotto e li precedette alla porta d’ingresso.
Prima di uscire, Wilson si voltò a guardare l’amico e, con un gesto del capo, gli indicò la porta del bagno. “Va da lei.” gli disse, attento a non farsi udire, soprattutto da Chase.
House si limitò a chiudere gli occhi e gettare la testa all’indietro.

Quando gli altri furono usciti, Cameron uscì dal bagno, indossando una tuta un po’ troppo grossa per lei, e un maglione che le copriva le mani.
Si affacciò in cucina.
“House.” disse a bassa voce.
Lui aprì gli occhi e la squadrò per qualche secondo: “Come sei sexy…” le disse in tono ironico. “Ti preferivo con i capelli appiccicati alla faccia e le labbra blu.”
Cameron era stanchissima, non aveva là forza di continuare quel gioco sadico col suo capo.
“Io vado a sdraiarmi un po’ di là.” si limitò a dirgli, e andò a coricarsi sul letto di Wilson.
House guardò per qualche secondo nella direzione in cui lei si era allontanata, poi si alzò e andò a gettarsi sul divano.
Chiuse gli occhi e si addormentò.

30 gennaio, h 19.30
Princeton Plaisboro Teaching Hospital

La paziente arrivò in ospedale pochi minuti dopo di loro.
Chase e Foreman fecero appena in tempo ad indossare il camice, e a dare una sbirciata veloce alla sua cartella.
La Cuddy la fece sistemare in una camera un po’ lontana dalle altre, così che i poliziotti di guardia non dessero nell’occhio. Questi si presentarono a lei con poche cerimonie, chiesero dov’era la macchinetta del caffè, e si sistemarono su due sedie subito fuori dalla stanza.
“Dobbiamo solo assicurarci che non lasci l’ospedale.” spiegarono rapidamente alla Cuddy “Non è pericolosa per i suoi medici.”
“Grazie.” si limitò a rispondere lei, e andò a parlare col medico che l’aveva accompagnata fin da loro.
Questi le disse solo che la Pivet aveva un tremito incontrollato ad un braccio, che negli ultimi minuti sembrava incominciare a prendere anche la gamba dello stesso lato. Tutte cose che la dottoressa si aspettava.
Riferì a Chase e Foreman, che si apprestavano a visitare la paziente.
“Dobbiamo assicurarci che non abbia preso medicinali o altri tipi di sostanze in queste ore. Le facciamo un po’ di esami per confrontarli con quelli di due giorni fa.” disse Foreman alla Cuddy. “Il suo disturbo si era aggravato precipitosamente, poi è scomparso, e ora sembra essere ritornato. Cerchiamo di capire cosa può aver provocato questo andamento altalenante del sintomo.” Continuò rivolto a Chase, che annuì.
“Bene, fatemi sapere se ci sono novità.” disse lei ai medici, e tornò nel suo ufficio.

Era stanca, anche lei aveva passato la notte insonne e, vista la condizione delle strade, era impossibile tornare a casa.
Doveva preparare tutti i documenti in loro possesso sulla Pivet, da consegnare l’indomani alla polizia, e doveva anche preparare un discorso convincente per difendere l’ospedale, House e la sua equipe.
Decise di occuparsi di queste cose, e poi di cercare un albergo nelle vicinanze per dormire qualche ora.
Bussarono alla porta.
Wilson le fece un cenno di saluto ed entrò.
“E’ andato bene il ricovero della Pivet?” chiese alla dottoressa.
“Si.” rispose lei, sospirando. “Ora devo prepararmi per domani.”
“Hai tanto da fare?”
“Un po’.” gli rispose. “Ma tu perché sei tornato? Chase e Foreman si occuperanno della paziente, tu vai pure a casa.” gli disse, tornando a posare lo sguardo sulle carte.
“E’ la seconda notte che passi qui.” le disse Wilson, sedendosi su una sedia, dall’altro lato della scrivania.
“Con questo tempo, non riuscirò a tornare a casa stasera. Finisco qui, aspetto che Cameron si riprende per scambiarci due parole, e poi me ne vado in albergo a dormire un po’.” disse lei, senza alzare gli occhi dai documenti.
Wilson la guardò qualche secondo. Ne era sempre più affascinato, la voglia di baciarla ancora diventava sempre più forte.
Lei alzò lo sguardo su di lui. “Non vai a casa?”
“No. Lasciamo a quei due un po’ di privacy, ho sempre la segreta speranza che Cameron riesca a penetrare un po’ la corazza di House.” le rispose Wilson, sorridendo.
“Forse è l’unica che può riuscirci…” commentò la Cuddy, restituendogli il sorriso.
“Resto a darti una mano.” disse lui, prendendo alcuni fogli dalla scrivania. “Così finiamo più in fretta, raggiungiamo House e Cameron a casa mia, vi mettete d’accordo per domani, e poi loro possono tornare qui a risolvere il caso di questa strana donna.” continuò sventolando la cartella della Pivet. “E tu…puoi restare da me a dormire. Se ti va…” incominciò a scrivere nervosamente qualche appunto sulle carte della paziente.
“Va bene, grazie.” rispose lei imbarazzata, dopo qualche secondo di silenzio.
Si guardarono per alcuni lunghissimi istanti poi, entrambi, abbassarono lo sguardo sui documenti che avevano davanti e incominciarono a lavorare.

30 gennaio, h 21.15
Abitazione di Wilson

Cameron aprì gli occhi, con una strana sensazione.
House era seduto sul letto, accanto a lei.
Piegato su di lei.
Le sue labbra premevano lievemente sulla sua fronte.
Rimase immobile, ma il suo respiro incominciò a farsi più veloce.
Lui se ne accorse.
Si staccò da lei, di poco, quel poco che bastava per guardarla negli occhi.
“Hai la febbre.” le sussurrò, rimanendo immobile a pochi centimetri dal suo viso.
Cameron era paralizzata dalla confusione: aveva aperto gli occhi e lui era lì, così vicino a lei. La febbre doveva essere alta, si sentiva stordita. O forse non era la febbre ma era solo la vicinanza di House.
Lui, con un movimento impercettibile, le alzò un po’ il maglione che Wilson le aveva prestato, e fece scivolare la mano sulla sua pancia.
Il contatto della mano di House sulla sua pelle, la fece trasalire.
Lui sorrise arrogante, senza togliere la mano, o spostare il viso dal suo. Sentiva l’alito caldo di Cameron sulla pelle, percepiva i brividi che le percorrevano la pelle.
“Sei bollente.” le disse, con quel tono di voce che a Cameron faceva venire la pelle d’oca.
“E’ la febbre.” fu la prima cosa che le venne in mente, e lo disse con un filo di voce.
“Sicura?” chiese lui malizioso.
La stava prendendo in giro, si divertiva ancora a provocarla, era sicura fosse così. Ma era stanca, aveva la febbre, non aveva la forza di arrabbiarsi.
Dolcemente, fece passare una mano dietro alla nuca di House, e lo avvicinò a sé, di quel poco che bastava a far incontrare le loro labbra.
Quando ci fu il lieve contatto fra le loro bocche, la mano di House, dalla sua pancia, si spostò lentamente, attorno alla sua vita e la strinse a sé.
Il cuore di Cameron batteva rapidissimo, non riusciva a rendersi conto di quello che accadeva, la febbre le annebbiava il cervello.
Continuò a tenerlo su di sé e, finalmente, dopo qualche secondo in cui entrambi sembravano troppo stupiti dal contatto tra le loro labbra per agire, le loro lingue si incontrarono.
Fu un bacio lungo e tenero, poi House si alzò a sedere bruscamente.
“Hai la febbre.” le disse confuso, ritirando la mano da lei, come se la sua pelle scottasse tanto da fargli male. Indugiò qualche istante, sfiorandola con i polpastrelli. Poi interruppe quel contatto e la ricoprì col maglione che aveva scostato.
“Hai paura che te l’attacchi?” disse lei sorridendogli dolcemente.
“Devi prendere qualcosa.” disse lui serio, alzandosi e andando verso il bagno.
Cameron temeva una reazione del genere in House.
Chiuse gli occhi qualche secondo e cercò di riprendersi.
Si alzò a sedere sul letto e si guardò nello specchio davanti a lei: i suoi occhi erano lucidi, la pelle rossa. La febbre doveva essere alta.
Tornò con una scatola di pillole e un bicchiere d’acqua.
Senza avvicinarsi le lanciò la scatola, che lei prese al volo. Appoggiò il bicchiere d’acqua sul comodino.
“I miei vestiti si sono asciugati.” le disse, parlandole dall’altra stanza. “Torno in ospedale. Se stai male chiama l’australiano, che corre più veloce di me.”
Tentò di ignorare il doppio senso di quella frase e di concentrarsi su quello che stava succedendo. Era sconvolta, non riusciva a spiegarsi quell’improvviso cambiamento di House.
Meccanicamente, prese due pillole e le ingoiò con un po’ d’acqua.
“House?” lo chiamò.
Lui si affacciò alla porta. “Tranquilla, non ti denuncio per molestie!” le disse “A meno che non tenterai di fermarmi mentre scappo da qui.” continuò, indossando il cappotto in fretta.
“Sei impazzito?” gli domandò lei, incredula, con un filo di voce.
“No. La mia gamba è pazza, ma non quanto i tuoi ormoni.” si mise il basco e lasciò rapidamente casa di Wilson.
Cameron si alzò lentamente, reggendosi alla parete. Si sentiva debole, ma l’incredulità stava facendo posto alla rabbia, e questo le dette la forza di raggiungere il bagno e mettersi i suoi vestiti, ormai asciutti.
Andò in cucina e aprì il frigorifero per cercare qualcosa da mangiare.
Trovò qualcosa che assomigliava a una mousse al cioccolato. Bomba calorica, ma erano ore che non mangiava e voleva evitare di svenire lungo la strada per il Plainsboro.
Si sedette al tavolo a mangiare.
Dopo pochi minuti sentì aprirsi la porta d’ingresso.
“Cameron? House? Disturbiamo…?” disse Wilson titubante.
“Sono qui.” rispose Cameron, alzandosi. “Scusa se ho preso qualcosa da mangiare, ma mi sentivo svenire.”
“Hai fatto bene.” rispose l’oncologo.
“Dov’è House?” chiese la Cuddy, spuntando dietro di lui, mentre si toglieva il cappotto.
“Ehm…” Cameron si sentì improvvisamente a disagio. “…è andato via. Credo stia tornando in ospedale.”
“Tu non ti senti ancora bene?” le chiese la Cuddy avvicinandosi a lei e posandole una mano sulla fronte. “Hai la febbre.”
“Si, ma ho preso qualcosa e ora sto meglio. Tra poco mi passerà. Raggiungo gli altri in ospedale, possiamo parlare domani mattina per la deposizione alla polizia.” disse Cameron, prendendo il suo cappotto.
Si aspettava che la costringessero a rimanere ancora a casa, ma in risposta ebbe solo un imbarazzato silenzio.
Guardò Wilson e la Cuddy e le venne da sorridere.
Riconosceva quel tipo di imbarazzo, quell’imbarazzo che ultimamente sentiva spesso nell’aria quando loro due erano assieme.
“Io vado.” disse, non riuscendo questa volta a trattenere un sorriso.
La Cuddy abbassò lo sguardo, e fu la prima volta che Cameron glielo vide fare.
Si sentì intenerita da loro, ma nello stesso tempo le venne un po’ di tristezza per se stessa.
Cercò di non pensarci, doveva concentrarsi sulla paziente ora.
Si chiuse la porta alle spalle e, rabbrividendo, si buttò per l’ennesima volta, quel giorno, nel gelo del mondo attorno a lei.

30 gennaio, h 22.00
Princeton Plaisboro Teaching Hospital

House arrivò come un tornado nel suo ufficio.
Lanciò il bastone a Foreman, che lo prese poco prima che gli finisse in faccia, e incominciò a togliersi il cappotto.
“Allora, voglio un riassunto di tutto quello che avete scoperto da quando la Pivet è tornata tra noi.”
“Gli esami…” incominciò Chase.
“No, non tu. Sono già abbastanza nervoso, vai a prepararmi un caffè.” lo interruppe House sprezzante.
Chase non si mosse.
“Mi hai sentito? Sono il tuo capo e voglio un caffè, vai a prepararmelo.” urlò quasi lui.
Chase rimase spiazzato dall’aggressività del suo capo, e andò a preparare il caffè senza dire una parola, e odiandosi per questo.
“House, ti sembra il caso di trattarlo così?” si intromise Foreman.
“Dimmi della paziente.” lo ignorò lui.
“La devi finire di umiliarlo, non hai nessun diritto di…” insistette il neurologo.
“Pensa ai tuoi di diritti, Mandela, o qui torniamo all’apartheid. Dimmi della paziente.” House lo interruppe ancora con durezza.
Anche Foreman decise che era il caso di fare come diceva lui, quando era fuori di sé non c’era verso di ragionarci.
Sospirò e, ripassando il bastone al suo capo, disse: “Niente di nuovo, tranne che ha ingerito della placenta. Sembra che questo non abbia avuto nessuna conseguenza sul suo organismo. Il disturbo, a quanto dice lei, era completamente scomparso. Da qualche ora però è ricominciato il tremore, in modo graduale com’era iniziato la prima volta: mano, braccio, piede, gamba. Siamo fermi qui per ora.”
“Perché è stata arrestata?” chiese House.
“Non lo so, parla a fatica.” rispose Foreman.
Arrivò Chase, che passò riluttante la tazza di caffè ad House.
“Fai un sorso tu, prima.” disse lui, ripassandoglielo.
“Perché? Hai paura che ti avveleni?” chiese Chase, sarcastico, facendo un sorso dalla tazza e porgendogliela ancora. “Sei paranoico, e forse non hai tutti i torti ad esserlo.”
House lo guardò con espressione stupita. “Era una minaccia?!” chiese incredulo e divertito.
“Insomma…tu mi odi, Cameron mi ama. Come faccio a sapere se sono buono o cattivo?!” lo prese in giro House. “Foreman, tu?” chiese rivolgendosi al neurologo.
“Io…ho scoperto che la Pivet ha avuto una gravidanza!” tentò di cambiare discorso, e fortunatamente riuscì nel suo intento.
House rifletté per qualche secondo, poi uscì dal suo ufficio.
“Dove vai?” chiese Foreman, rincorrendolo.
“Devo parlare con quella donna.” rispose lui, senza fermarsi.
Aveva lasciato il suo caffè sul tavolo. Chase si avvicinò, prese la tazza e finì di berlo.
Poi, con apparente tranquillità, scagliò la tazza contro il muro. I cocci schizzarono ovunque.
“Ma sei impazzito?!” lo aggredì Foreman, controllando, poi, che House non avesse sentito quel trambusto.
Chase lo guardò e, senza dire una parola, lasciò la stanza.
 
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+Marty24+
view post Posted on 10/12/2006, 21:42




brava...mi piace molto...........
 
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17fede
view post Posted on 11/12/2006, 20:25




Sì sì bellissima......continua così!! :AngelStar25:
 
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°vally°
view post Posted on 16/12/2006, 02:58




CAPITOLO 7
30 gennaio, h 22.15
Princeton Plaisboro Teaching Hospital

Cameron camminava con passo veloce, le braccia conserte per proteggersi dal freddo. La febbre la indeboliva, flash di immagini di House che la baciava, dei suoi occhi così vicini e del calore della sua pelle la stordivano. Provava gioia, mista a qualcosa che assomigliava alla paura.
Poi era arrabbiata, per come l’aveva trattata dopo quel bacio, per come se n’era andato lasciandola così…
Tutte emozioni forti, che la turbavano.
Svoltò nella via dell’ospedale, e vide il grosso edificio in lontananza.
Finalmente era arrivata.
Ormai le strade erano praticabili, avrebbe dovuto chiamare un taxi.
Quel tratto di strada percorso a piedi, però, le aveva permesso di scaricare un po’ di tensione.

Entrò al Plaisboro, accolta dal tepore e dalla familiarità di quel luogo.
Era il suo posto di lavoro ma a volte lo preferiva a casa sua: lì c’era sempre qualcuno con cui scambiare anche solo qualche frase di circostanza, c’erano delle voci da sentire, dei gesti da cogliere.
Case sua ,a volte, era così vuota che la spaventava.
Ad un certo punto vide arrivare Chase verso di lei, o almeno così sembrava. In realtà la superò, non guardandola neanche.
“Ehi! Dove vai?” chiese al collega.
“Me ne vado a casa.” rispose lui, senza voltarsi. Uscì dalla porta da cui lei era appena entrata.
Cameron si chiese se era veramente lei la causa degli strani atteggiamenti di Chase dell’ultimo periodo…le sembrò improbabile, probabilmente c’era dell’altro.
Prese l’ascensore e si diresse nella camera dove pensava di trovare la Pivet: era già capitato che un paziente di House avesse una scorta a seguito, e la Cuddy aveva predisposto una camera un po’ isolata adatta per occasioni di questo tipo.
Infatti vide due uomini fuori dalla stanza, con caffè in una mano e giornale nell’altra: inconfondibili.
“Ha bisogno, signorina?” le chiese uno di loro vedendola avvicinarsi.
“Sono uno dei medici che ha in cura la signorina Pivet.” rispose.
“Il suo nome?” chiese lo stesso uomo, prendendo una foglio dalla tasca. Era una cosa seria, avevano anche una lista delle persone che potevano avvicinarsi alla donna.
“Allison Cameron.”
“Bene, può entrare. Con quel visino, l’avrei però fatta entrare anche solo in cambio di un sorriso…” disse languido il poliziotto.
Era abituata a questo genere di commenti, ma non era di umore adatto.
Non lo degnò neanche di uno sguardo e fece per entrare nella stanza.
Stava appoggiando la mano sulla maniglia, quando qualcuno, dall’altra parte, la precedette.
Si trovò di fronte House.
“Cosa ci fai qui?” le chiese sgarbato, impedendole di entrare.
“Sono venuta a vedere come sta la paziente…” rispose lei indecisa.
“Sta bene. E’ qui perché le piace l’arredamento. Vieni.” si chiuse la porta alle spalle e fece gesto a Cameron di seguirlo.
Percorsero i metri di corridoio che separava la stanza della Pivet alla sala equipe in imbarazzante silenzio.
Con sollievo di entrambi, in ufficio trovarono Foreman, che stava aggiornando la lavagna.
“Fermo!” urlò House appena lo vide.
Foreman si spaventò e si voltò guardandolo incredulo.
“Dammi quel pennarello.” glielo tolse bruscamente dalla mano. “Questa” disse indicando la lavagna “è mia! Ok?”
Foreman annuì con gli occhi sgranati, poi si avvicinò a Cameron “Ma che hai fatto a questi due?” le sussurrò con un sorriso malizioso.
Cameron fece finta di non sentire, scossa dall’aggressività di House.
“Allora. Il ciclo dei sintomi si sta ripetendo.” disse House, tracciando un cerchio col pennarello. “Se è identico, tra un po’ si ripresenterà la paralisi.”
I due annuirono.
“Foreman, racconta un po’ alla nostra piccola fiammiferaia cosa sappiamo di nuovo sulla Pivet.”
Foreman si voltò verso Cameron “Mi ha detto di avere avuto una gravidanza, parlava confusamente di un figlio che la deve proteggere. Non so se la storia del figlio è reale, è molto confusa e fa fatica a parlare. Ho fatto dei controlli però, e la gravidanza c’è stata veramente.”
“Bene.” si inserì House “Ha parlato con me e posso confermare la mia tesi che terrorizzando un paziente, si ottengono un sacco di informazioni interessanti. Ha avuto la gravidanza 12 anni fa. Dice di avere un figlio, di 12 anni appunto, in circolazione: in giro, in strada. Mi ha raccontato una storia commuovente sul perché l’ha abbandonato eccetera eccetera, ma le ho detto di risparmiarsi le lacrime per te, che ci godi un sacco.” concluse sorridendo sarcastico a Cameron.
“Quindi ha un figlio di 12 anni?” chiese Foreman.
“Si, e vi dirò di più. La Pivet è disperata perché…” alzò gli occhi al soffitto, cercando di ricordare il nome del bambino. Ovviamente non ci riuscì. “…il ragazzo, udite udite…”
Cameron e Foreman lo guardavano sulle spine.
“…ma dov’è il terzo moschettiere?” chiese improvvisamente House, guardandosi attorno.
“Ehm…” iniziò Foreman.
“L’ho visto che usciva dall’ospedale, ha detto che andava a prendere un po’ d’aria.” mentì Cameron, ma solo in parte…
House scosse la testa, visibilmente irritato.
“Il ragazzo ha un braccio paralizzato.” disse poi.
“Chi? Il figlio della Pivet?” chiese Foreman.
“No, il mio!” rispose ironico House.
“E tu le credi?” gli chiese Cameron.
“Si, ma non vi spiego perché, occuperei i vostri cervellini con troppe informazioni. Mettiamo che il figlio della Pivet ha lo stesso disturbo della madre. Quindi?”
Cameron e Foreman incominciarono a elencare una serie di ipotesi sulla malattia che poteva aver colpito la Pivet e suo figlio.
“Se avessimo qui il ragazzo sarebbe tutto più semplice.”disse Foreman ad un certo punto “Magari il suo disturbo non ha nulla a che fare con quello della paziente! Rischiamo di allontanarci dalla soluzione se seguiamo le tracce sbagliate!”
“Bravo Watson!” esclamò House. “Lo sapevo che ci saresti arrivato da solo...”
“No House, non pensare di mandarmi ancora dall’altra parte della città!”
“Non ora.” disse lui rabbuiandosi. “Sarebbe impossibile. Domani.”
Posò il pennarello.
“Andate a casa. Riprendiamo domattina.” disse.
Foreman, scocciato, si mise il cappotto e si diresse verso la porta. “Foreman” lo fermò House “non dire a Wilson che ti ho chiamato Watson. Sai com’è…è un nomignolo che di solito dedico a lui, potrebbe ingelosirsi.” Foreman annuì sconsolato, fece un cenno di saluto, e se ne andò.
“E tu?” chiese House a Cameron, che non si era mossa.
“Ci siamo baciati.” disse lei, serena.
“Si, c’ero anch’io.” rispose lui.
Lei gli sorrise.
“Cosa significa per te?” provò a chiedergli lei.
“Che ci siamo baciati.” rispose House, dandole le spalle e mettendosi il cappotto.
“House…”
Si voltò e la guardò per qualche istante. “Non lo so.” le disse, e lasciò la stanza.
Cameron sospirò.
Pensava che dopo quel bacio che aveva tanto desiderato, tutto sarebbe stato più semplice, più chiaro.
Si sbagliava.

30 gennaio, h 21.20
Abitazione di Wilson

Appena Cameron lasciò la casa di Wilson, un silenzio imbarazzante cadde su di loro.
“Vuoi…qualcosa da bere?” le chiese Wilson esitante.
La Cuddy annuì, sollevata per il fatto che avesse rotto il silenzio.
“Vino va bene?” le chiese mostrandogli una bottiglia di rosso.
“Mi vuoi far ubriacare?” rispose lei, fingendosi offesa.
La cosa triste per Wilson, fu che aveva pensato seriamente di ubriacarsi: non si era mai sentito tanto impacciato con una donna e aveva bisogno di qualcosa che lo rendesse un po’ meno inibito.
Sentì ancora quell’irrefrenabile voglia di parlarle di quello che era successo tra loro.
“Lisa, per quel bacio…” le disse, porgendole il bicchiere.
“Wilson…” lo interruppe lei.
Posò il bicchiere sul tavolo dietro e lo guardò negli occhi. “Non dobbiamo parlarne se è imbarazzante.” continuò la Cuddy, sorridendogli.
“No, bhe…” Wilson si interruppe, capendo cosa intendeva dire lei con quella frase.
Le restituì il sorriso, avvicinandosi.
La strinse forte a sé e la baciò.
Fu un bacio lungo e intenso, che riuscì a cancellare quell’imbarazzo che li divideva e fece capire ad entrambi che, questa volta, l’unione delle loro labbra sarebbe stato soltanto l’inizio di una lunga notte.

31 gennaio, h 7.15
Abitazione di Wilson

Suonò la sveglia.
Wilson aprì subito gli occhi, allungò una mano per spegnerla e si sedette sul letto, pronto per iniziare la sua giornata.
Si accorse che era nudo, e che non era solo.
Si voltò e la guardò: vederla dormire, vederla indifesa, lei che combatteva ogni giorno per portare avanti, da donna, un ospedale, e una vita…
Le fece tenerezza.
Ma era confuso, cosa avrebbero fatto adesso?
La Cuddy aprì gli occhi, trovandolo che la fissava.
“Buongiorno.” gli disse, sorridendo imbarazzata.
“Ciao.” non smise di guardarla.
“Tutto bene?” gli chiese lei.
Lui annuì. “Dobbiamo alzarci, o arriveremo tardi.” le disse.
“Va bene.” si tirò su, sedendosi sul letto. Nel far ciò cercò di coprirsi goffamente con il lenzuolo, cercando di nascondere almeno in parte la sua nudità.
“Scusa, ti lascio preparare.” disse Wilson, ridestandosi improvvisamente e rendendosi conto che forse voleva un po’ di privacy. Si mise in fretta i boxer e un paio di pantaloni, e uscì dalla camera da letto.
“Non è tua moglie…” disse a se stesso, dirigendosi verso la cucina.
La bottiglia di vino era lì, completamente vuota.
Si rese conto che era stanchissimo.
Era stata una notte lunga: avevano bevuto, scherzato tanto e fatto l’amore diverse volte.
Si rese conto che era da tanto che non si trovava così bene con una donna.
Ma era il suo capo…era la Cuddy!
Cercando a non perdersi nella confusione dei suoi pensieri, preparò il caffè.
La sentì entrare in bagno e aprire la doccia.
Per una frazione di secondo pensò di raggiungerla, poi ricordò la sua espressione di qualche minuto prima, e decise di lasciarla un po’ sola.
Arrivò alcuni minuti dopo, vestita e truccata di tutto punto, pronta per andare a lavorare.
“Wow, che velocità! Ho preparato il caffè.” le disse Wilson.
“Grazie.” prese la tazza dalle sue mani e incominciò a bere.
“Puoi sederti…” le disse lui, indicandole il tavolo.
“No, grazie. Forse è meglio che io incominci ad andare in ospedale. Devo sistemare ancora qualcosa per Dereck, e devo parlare con Cameron.” rispose la Cuddy, sempre più imbarazzata.
“Va bene.” disse Wilson, cercando di essere comprensivo per tranquillizzarla.
Posò la tazza sul tavolo, andò a cercare il suo cappotto e tornò in cucina.
“Ti ho chiamato un taxi, sarà qui tra pochi minuti.” la precedette lui.
“Grazie…io, incomincio a scendere allora.”
Wilson era appoggiato al tavolo, a torso nudo, a braccia conserte; la osservava incuriosito, cercando di capire cosa le passasse per la testa.
“Ok, a dopo.” le rispose.
Lei sorrise e si voltò per andarsene.
“Lisa.” Wilson la chiamò e lei si girò ancora verso di lui, con aria interrogativa.
“Niente…ci vediamo tra un po’.” disse lui infine, voltandosi per prendere il suo caffè.
“Ciao.” rispose lei, e poi uscì.

31 gennaio, h 8.00
Princeton Plaisboro Teaching Hospital

Cameron entrò in ospedale, e andò diretta nell’ufficio della Cuddy.
Le persiane erano chiuse. “Strano.” pensò.
Bussò.
La Cuddy le aprì la porta.
Il suo aspetto non era dei migliori.
“Ciao.” la accolse, facendole gesto di sedersi.
“Tutto bene? Ti vedo un po’ sbattuta…” le disse Cameron.
Poi si ricordò della sera precedente, e le venne da ridere; si trattene a stento.
“Scusa, intendevo dire…” provò a rimediare.
“Lascia stare.” rispose lei, facendo capire che l’argomento era chiuso. “Allora, l’agente Dereck mi ha avvisato che arriverà in tarda mattinata. Se ci va bene chiederà di parlare solo con te e me, se va male vorrà parlare anche con House. Voglio essere ottimista perché non ho la forza passare la mattinata dietro ad House per convincerlo a dire e fare le cose che voglio io, quindi…” sembrò perdere il filo del discorso. “…scusa…cosa stavo dicendo?” chiese a Cameron.
“Che speri chieda di parlare solo con noi due.” rispose lei, guardandola perplessa.
“Si, ecco. Quindi…” incominciò a frugare in mezzo a delle carte sparse sul suo tavolo.
Cameron la guardava sempre più perplessa, non l’aveva mai vista così confusionaria.
“Ma dov’è?” la Cuddy continuava a cercare. “Ecco!” esclamò ad un tratto, con un’enfasi esagerata per la situazione.
Passò il foglio a Cameron. “Ti ho scritto quello che assolutamente non devi dire. Tienilo pure e imparalo a memoria.”
“Grazie…” lo piegò per metterselo in tasca.
“No!” la fermò la Cuddy “Tienilo fuori. Ora simuliamo il colloquio con il poliziotto, e tieni il foglio a portata di mano. Dopo proviamo senza.”
Cameron la guardava con gli occhi sbarrati. “Stai scherzando…”
“No, perché?” chiese la Cuddy, realmente sorpresa.
“Non siamo mica a scuola. Non c’è bisogno che mi fai l’interrogazione di prova.”
“Cameron, questa faccenda è seria. Se dici qualche c@zz@ta, andiamo tutti nella m€rd@. Chiaro?” ribattè lei, guardandola negli occhi.
“Chiaro.” rispose Cameron, rassegnata.
“Bene, partiamo. Dov’eri ieri notte, verso le 4?” le chiese la Cuddy.
“A casa a dormire.”
“C’è qualcuno che può provarlo?” continuò la Cuddy.
“Ma che domanda è?! Non sono mica accusata di averla fatta scappare, dobbiamo parlare della paziente, non di me!” rispose Cameron risentita.
“Hanno trovato la tua macchina abbandonata nello stesso luogo dov’era la Pivet, non escludo che ti facciano domande di questo tipo. Quindi, per favore, rispondi e basta.” la Cuddy cercava di stare concentrata sulla discussione, ma i suoi gesti facevano intendere che era agitata per qualcosa.
“No, vivo sola, non c’è nessuno che può provare che a quell’ora ero nel mio letto.” Rispose Cameron controvoglia. “Sicura di stare bene?”
“Si. La mattina sei arrivata a lavoro e…?” la Cuddy respinse ancora la sua domanda, infastidita, e continuò con l’interrogatorio.
“…e ho incontrato te all’ingresso, che mi hai detto che la paziente…” Cameron incominciò a raccontare la sua giornata, omettendo qualche particolare qui e là.
La Cuddy la ascoltava e interrompeva se qualcosa non la convinceva, ma Cameron continuava a credere che i suoi erano solo tentativi di mantenere i suoi pensieri lì, e di non farli volare alla notte precedente. Per lei la situazione non era molto diversa.

31 gennaio, h 8.30
Ufficio di Wilson

Wilson aprì la porta del suo ufficio ed entrò.
Notò subito che c’era qualcuno ad aspettarlo: ne fu contento.
“Buongiorno.” gli disse House.
“Buongiorno.” rispose Wilson, tirando giù i piedi dell’amico dalla sua scrivania.
“Non sei stupito di trovarmi qui?” chiese House, contrariato perché si aspettava una reazione diversa dall’oncologo.
“No. Sono solo stupito di averti trovato sveglio. Hai dormito sulla mia poltrona?” gli chiese distrattamente.
“No! Ho dormito a casa mia.” rispose House, fingendosi offeso.
“Allora si che sono stupito…che ci fai già a lavoro? Non hai pagato una prostituta e lei ha occupato casa tua, sbattendoti fuori?” chiese, sedendosi dall’altra parte della scrivania.
“Quel genere di battute vengono bene solo a me, lascia perdere.” ribatte House “Tu piuttosto…” piegò la testa di lato, studiandolo attentamente.
“Io cosa? La smetti di fissarmi così?!” incominciò ad irritarsi.
“Sei stato a letto con la Cuddy.” sentenziò.
“Cosa te lo fa pensare? Sentiamo…” chiese Wilson provocatorio, ma in realtà contento della perspicacia di House, che gli permetteva di risparmiarsi l’imbarazzante momento della confessione.
“Due cose. Uno: stamattina ho visto la Cuddy ed era vestita come ieri. Quindi ha passato la notte fuori casa. Visto che le strade ieri sera non erano messe così male, non ha dormito fuori per necessità, ma per piacere…” rispose House, malizioso.
“Secondo motivo? Il primo non spiega perché sono coinvolto anch’io.” lo incoraggiò Wilson.
“Secondo: sono le 8.30. Tu non arriveresti mai in ritardo di mezz’ora a meno che…non fossi sicuro di non ricevere un cazziatone dal tua capo…e tu sei tranquillo e rilassato. Proprio perché ora che il tua capo è la tua amante, credi di avere dei privilegi, come quello di arrivare in ritardo senza essere ammonito. Per la cronaca: ti sbagli.”
“In che senso?” chiese lui, stupito dall’ultima frase.
“Nel senso che l’andarci a letto non ti porterà ad avere delle riduzioni sull’orario di lavoro.”
“Quello l’avevo capito. Quello che non capisco è perché me lo dici con tanta sicurezza.” Wilson lo guardava con sospetto.
“Allora ci sei stato a letto o no?” gli chiese House, sporgendosi verso di lui.
“Sei convinto di avere ragione come sempre, la mia risposta non cambierà nulla. Hai eluso la mia domanda.” rispose Wilson, appoggiando i gomiti sulla scrivania come aveva fatto il suo amico.
“Tu hai eluso la mia. Voglio sentirtelo dire.” lo sfidò House.
“Lo sai che è successo, perché devi fare questi giochetti sadici? E comunque voglio una spiegazione per quella tua frase.” Wilson non demorse.
“Si, sappiamo tutti e due che è successo, ma voglio che lo dici. E’ importante, capirai perché.” insistette House.
“Sei un sadico bastardo…” disse Wilson, abbassando lo sguardo sulla scrivania.
“Forza.” lo incitò House.
Wilson alzò gli occhi al soffitto, poi guardò fisso l’amico.
“E va bene… Sono stato a letto con Lisa Cuddy.” continuò a fissare House, che incominciò a sorridere.
“Oh mio dio…House, sono stato a letto con la Cuddy!” esclamò dopo qualche istante Wilson. Si portò le mani alla bocca, pensieroso.
House aveva un’espressione divertita. “Visto? Finché non lo dici ad alta voce è come se non fosse reale…Ora lo è!” disse soddisfatto. “Almeno tu hai un amico come me che ti dà indicazioni su cosa fare in questi casi…”
“E’…” Wilson non trovava le parole, ed era a disagio, ma aveva bisogno di confrontarsi con qualcuno. “E’ stata fantastica! Tutta la notte…”
“Tutta la notte?! Allora potevate invitarmi, sarei passato con un po’ di popcorn! Sai quanto mi costa un’intera notte di web-donnine?!” lo interruppe House, alzandosi.
“Che fai? Te ne vai? Che razza di amico sei?!” anche Wilson si alzò, e gli bloccò la strada. “Ora stai qui e mi ascolti.” ordinò ad House.
“Ti prego Wilson, ho un’immaginazione molto fervida, ho appena fatto colazione. La Cuddy nuda posso reggerla, ma tu e lei assieme…” fece una faccia disgustata.
“Va bene, niente particolari. Però siediti e ascoltami, sono un po’ confuso.” disse Wilson, spingendolo ancora verso la sedia.
House si sedette, sospirando.
“Non capisco…” iniziò lui.
“Bla bla bla, va bene Wilson. Non capisci cosa provi per lei, molto originale. Dai, cerca di stupirmi.” lo interruppe House, con aria annoiata.
“Stamattina, è stato strano.” riprovò Wilson.
“Certo! Di solito la vedi in tailleur quando arrivi in ospedale. L’hai trovata nel tuo letto, nuda, appena è suonata la sveglia! E’ destabilizzante, ti capisco.” disse House serio.
“Mi capisci?” Wilson tornò a guardarlo circospetto.
“Già…” rispose House, distogliendo lo sguardo e grattandosi la barba con fare distratto.“Quando poi, la mattina, tenta di coprirsi…è una contraddizione alla notte passata…destrutturate…” guardò l’amico.
Wilson capì che House era a disagio e un’idea incominciò a farsi strada nella sua testa. Gli vennero in mente vecchi ricordi…
“House, devi dirmi qualcosa?”

31 gennaio, h 8.40
Ufficio di Cuddy

Era la seconda volta che la Cuddy le faceva ripetere la sua “deposizione”. Stava diventando estremamente frustrante: lei cercava di concludere rapidamente quel siparietto, ma la Cuddy non riusciva a concentrarsi, era distratta e irrequieta, non riusciva a seguirla.
“Lisa, cos’hai?” le chiese improvvisamente Cameron, questa volta in modo abbastanza risoluto da impedirle di ignorare la domanda.
La Cuddy la guardò, pensierosa.
“Devo dire una cosa a Wilson…” le rispose seria.
 
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17fede
view post Posted on 16/12/2006, 15:54




Complimenti!!! Scrivi davvero bene!!! Aspetto il seguito....
 
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35 replies since 29/11/2006, 00:01   864 views
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